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Pino Daniele, la sua musica, il suo tempo

Tempo di lettura: 4 minuti

Il 4 gennaio scorso è caduto il decennale della morte della morte di Pino Daniele. La Rai lo ha ricordato con uno speciale intitolato JeSoPazzo. Lo aveva già fatto nel 2017 e nel 2022 con Il tempo resterà e Pino c’è.

Pino Daniele è stato un grande musicista. Nei suoi quarant’anni di attività ha attraversato i generi musicali più diversi prendendo da ognuno di essi ciò che gli serviva per esprimere se stesso, il suo tempo e la sua gente, con spregiudicatezza, senza riserve e senza remore, dai primi agli ultimi dischi. Ancora oggi la sua musica piace ed emoziona e questo, secondo me, vale più di ogni parola.

Nelle commemorazioni “ufficiali” però manca qualcosa. Manca la gente. Non il pubblico pagante ma la sua gente, soprattutto la sua generazione, che è anche la mia. E manca il tempo, il suo tempo, il nostro tempo. C’è solo Napoli, che è tanto ma non tutto. Pino Daniele viene descritto come un grande protagonista della scena musicale italiana e partenopea, ieri un genio, oggi un mito. Ma io non credo che sia solo questo.

Pino Daniele inizia a suonare e a cantare nei primi anni Settanta. Nel 1976 entra a far parte del gruppo jazz-rock Napoli centrale. Al suo primo disco da solista, Terra mia, inciso nel 1977, seguono Pino Daniele (1979), Nero a metà (1980), Vai mo’ (1981), Bella ‘mbriana (1982), Musicante (1984) e Ferryboat (1985). Sono i suoi anni migliori, anni durante i quali suona insieme ai musicisti più attivi e creativi di Napoli (fra cui Toni Esposito, James Senese e Tullio De Piscopo) e collabora con protagonisti del pop internazionale come Alphonso Johnson e Wayne Shorter dei Weather Report, Richie Evans, Gato Barbieri e Mel Collins, il sassofonista dei King Crimson. La sua musica è una miscela esplosiva di blues, rock, canzone melodica napoletana, folclore mediterraneo, fusion e bossa nova. I suoi testi sono diretti, immediati, provocatori e non è un caso. Sono gli anni in cui nascono o emergono la Nuova Compagnia di Canto Popolare, gli Aktuala,  gli Area, la Premiata Forneria Marconi, il Banco del Mutuo Soccorso, Alan Sorrenti, Franco Battiato, Vasco Rossi, Claudio Rocchi e tanti altri, gli anni delle prime contaminazioni, della ricerca musicale, della nascita della world music. Anni di grande fermento e di grande creatività.

In un’intervista sinora inedita inclusa in JeSoPazzo, Pino Daniele dice che il rock-blues e il progressive britannico sono le radici della sua musica. Quasi tutti sanno che quei generi nascono da movimenti giovanili di rivolta o di protesta, comunque li si voglia chiamare. Nell’ultimo speciale della Rai invece (e anche negli altri) sembra che nessuno sappia (o voglia dire) da dove nasce la musica di Pino Daniele. Succede a tutti quelli che, come lui, hanno iniziato a suonare e a cantare nei nostri anni Settanta.

Nel nostro paese degli anni Settanta non si parla. Non lo si fa per pudore, galateo o disinformazione. La sinistra contribuisce attivamente a questa ormai consolidata smemoratezza con cose come il recente film su Berlinguer. Nell’immaginario collettivo gli anni Settanta sono gli anni di piombo, gli anni degli attentati, del terrorismo e della paura. Eppure, come abbiamo visto, sono stati anche anni di grande fervore creativo: ma non se ne parla. Sembra che il loro epilogo (il rapimento Moro, la lotta armata – non ancora assimilata al terrorismo – e il dilagare dell’eroina) abbia fatto dimenticare tutto il resto. Al massimo si può citare il “sessantotto” ma guai a sconfinare nel nostro ’69 e in ciò che ne è seguito. Non si parla delle lotte operaie e studentesche, degli scioperi, delle manifestazioni, dei festival pop, dei gruppi extraparlamentari, dell’area dell’autonomia, e soprattutto del movimento del ’77, degli scontri e del grande convegno di Bologna. Non si parla dei movimenti giovanili, dei loro contenuti e della loro importanza, senza i quali non ci sarebbe stato il Pino Daniele che conosciamo, così come senza la rivoluzione francese e Napoleone Bonaparte non ci sarebbe la terza sinfonia di Beethoven. Eppure è stata proprio la tensione verso un mondo nuovo che quei movimenti esprimevano a creare le condizioni affinché nascessero tante cose di cui ancora godiamo, fra cui anche la sua musica e quella dei suoi compagni di strada.

In Pier – Tondelli e la generazione, Enrico Palandri scrive di Piervittorio Tondelli e di quegli anni. Lui e Tondelli sono stati gli autori che, più di tutti, ne hanno colto lo spirito, soprattutto nelle loro opere prime (Boccalone e Altri libertini), pertanto le sue opinioni in merito sono autorevoli. Una delle tesi del suo libro è che il nostro paese non riesce a rinnovarsi perché, dopo averli duramente repressi, si ostina a negare i movimenti di protesta che hanno attraversato i nostri anni Settanta e, con ciò, a misconoscerne la valenza innovativa sociale e culturale. Per contrasto Palandri porta l’esempio virtuoso della Gran Bretagna, che ha digerito e assimilato Beatles e Rolling Stones e il loro retroterra socioculturale e che, per questo, sarebbe socialmente e culturalmente molto più avanti di noi.

Palandri scrive Pier nel 2002. Da allora sono cambiate molte cose e oggi, secondo me, la sua diagnosi va corretta. Anche la nostra Italia sta assimilando il cambiamento, e lo fa soprattutto attraverso l’arte. Gli artisti vengono mondati dalla loro storia e dal loro contesto e quindi consegnati al pubblico come protagonisti dello spettacolo, geni o miti. È quello che è successo a Pino Daniele dopo la sua scomparsa. Ma è un’assimilazione che ci restituisce solo una parte di ciò che vuole rappresentare e non è buona o almeno non lo è abbastanza. Per capire Pino Daniele sino in fondo (e, io credo, per apprezzarlo ancor di più) è necessario restituirgli tutta la sua storia e tutto il suo tempo.

Dalla metà degli anni Ottanta la musica e le parole di Pino Daniele cambiano. Anche lui, come tutti, si adegua alla nuova Italia, pacificata e mortificata: lo si legge nei testi, lo si sente nelle armonie. Ma il suo pubblico, la sua gente, resiste. Non solo: aumenta. Questa, forse, è stata la sua più grande dote: la capacità di conservare, di nutrire e di trasmettere, nonostante e oltre i tempi, emozioni e pensieri che sono appartenuti e appartengono alla sua giovinezza e, soprattutto, alla parte migliore di noi.

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