
Una generazione di profeti o utopisti sprovveduti?
Andando a rovistare nei ricordi e negli album fotografici e musicali degli anni 60/70, si prova un brivido caldo e inebriante che lascia smarriti e incapaci di formulare un giudizio finale su un’epoca senza precedenti e, temo, senza repliche future. Nessun nostalgismo, per carità, eventualmente solo qualche celebrazione sorridente per illuminare quanto in quel periodo ardeva sul viso e nel cuore di una gioventù mondiale, o almeno occidentale, senza confini territoriali e neppure culturali. Una generazione protagonista del momento che nacque subito dopo la guerra senza averla vissuta salvo che nelle vite dei propri genitori, con tante menti, tutte insieme, tanto aperte al nuovo.
Se in America la Beat Generation di Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg è stata il seme e l’utero, il parto clamoroso dei suoi primi figli destinati ad andare e moltiplicarsi è certamente avvenuto in Inghilterra. Riducendo la storia all’osso e ai suoi aspetti culturali e comportamentali, Liverpool nel 1960 con i Beatles porta alla luce un nuovo sound che fa immediatamente spalancare i cuori e le menti di milioni di giovani combinando melodie orecchiabili con testi profondi e via via anche spirituali.
Poco dopo, nel 1962, a Londra fanno il loro esordio i Rolling Stones che anche recuperando un sound passionale dal blues americano, andarono a completare la scena occupata dai Beatles così puliti e raffinati, con un rock urlato, ribelle, provocatorio, travolgente. Molti allora ipotizzarono antagonismo tra le due formazioni, ma io credo che in realtà sulla scena musicale fossero il Tao del nuovo mondo: lo Yin e lo Yang della rivoluzione ormai incontenibile. I Beatles con il loro tocco magico e femminile nelle menti e anime giovanili, i Rolling Stone con il loro strappo maschile che suscitava eros dando per possibile una libertà passionale mai vista prima.
Così 60 anni fa, nel maggio del 1965, milioni di giovani con i capelli sempre più lunghi avvamparono danzando una canzone che, dopo un riff semplice e impetuoso, diceva così:
«Quando sto guardando la TV
Ed arriva quel tizio a dirmi
Come possono essere bianche le mie camicie
Ma non può essere considerato un uomo perché non fuma
Le mie stesse sigarette
Non mi sento per niente, oh no, no, no
Hey, hey, ecco cosa vi dico
Non mi sento per niente soddisfatto»
Questa era Satisfaction. Urlata dalla voce sporca e meravigliosa di Mick Jagger. Beh, è sempre bello ricordare la genesi di questa canzone indimenticabile che è anche genesi scandalosa di un’epoca non solo musicale.
Keith Richards – chitarrista dei Rolling Stone da sempre nella top list dei migliori del mondo, uomo che non ha mai fatto mistero de suoi stravizi fino a dichiarare che si era sniffato anche le ceneri del padre dopo la cremazione, e nonostante tutto questo all’alba dei suoi 82 anni mostra una vitalità inaspettata anche sul palco – una sera del ‘65 era a casa solo e, dopo aver carburato bene con alcol e tutto il resto, decise di provare il nuovo distorsore Fuzz, appena arrivato in suo possesso, perfetto per incattivire ulteriormente il sound dei Rolling.
Keith si prepara inserendo una cassetta C90 nel registratore. Dopo una breve accordatura della chitarra, una pausa intuitiva, spara quel riff pazzesco… e si addormenta lì dov’è, con la chitarra tra le gambe.
Il mattino dopo non ricorda nulla, ma vedendo la cassetta a fine corsa del lato A, la rewinda e pigia Play: i primi minuti di registrazione contenevano quello che diventerà a breve il riff d’esordio di Satisfaction, e poi silenzio… anzi, oltre 40 minuti di una russata sonora e profonda dello stesso autore della geniata precedente.
La mattina stessa, con la cassetta tra le mani, Keith corre da Mick Jagger. Ascoltandola insieme, traducono quella anteprima musicale in parole: «I can’get no satisfaction!» Chiamano il resto della band e, così, al volo, senza finiture, solo essenza, la registrano su un nastro da ¼ di pollice e lo consegnano per un parere al loro manager Log Oldham.
Pochi giorni dopo sentono la loro registrazione trasmessa da una radio americana e si incazzano furiosi con Oldham per aver messo in circolazione un pezzo tanto grezzo. Eppure, prima che potessero presentare le loro rimostranze, Satisfaction salì ai primi posti nelle classifiche musicali di tutto il mondo, esprimendo una frustrazione generazionale, universale, potente, riconoscibile: «Non posso avere soddisfazione!»
C’è qualcuno oggi che non si sentirebbe di manifestare quella insoddisfazione vivendo il mondo che ci tocca di vivere?
Quanto ai Beatles, Lennon in particolare, hanno regalato all’umanità dei veri e propri monumenti musicali come Imagine, e Give peace a chance (Diamo alla pace una possibilità) la canzone che divenne un inno del movimento pacifista americano e, ancora oggi, ha buone ragioni a dire così:
«Lasciatemi dire adesso
Tutti parlano di
Rivoluzione, evoluzione, masturbazione,
Flagellazione, norme, integrazioni,
Meditazioni, Nazioni Unite,
Congratulazioni
Tutto ciò che noi diciamo è: date una possibilità alla pace
Tutto ciò che noi diciamo è: date una possibilità alla pace».
GIVE PEACE A CHANCE. (Ultimate Mix, 2020) – Plastic Ono Band (official music video HD):
https://www.youtube.com/watch?v=C3_0GqPvr4U