
I referendum? Non sono più quelli di una volta
Quando martedì mattina il giornale radio Rai aveva annunciato i risultati del referendum seguiti da una lunga serie di commenti governativi che osannavano alla vittoria dell’astensionismo, ho “spento” la radio. Non perché sorpreso dalla sconfitta, che prevedevo già prima di andare a votare, ma per non ascoltare sino alla fine la sequela di commenti pieni di scherno provenienti dalla Meloni, da La Russa che parlava di “elettori schifati” e dai gerarchetti della coalizione di governo, che la radio riportava con grande enfasi. Sembrava un ritorno all’Eiar del regime.
Non esistono dubbi che il referendum e la “spallata al governo” siano stati un fallimento; e non serve metterci la toppa delle acrobazie aritmetiche. La risposta degli elettori è stata netta: ancora una volta hanno rifiutato in grande maggioranza di sostituirsi al Parlamento per cambiare delle norme già votate pochi anni fa da senatori e deputati. Oltre agli assenti consapevoli, aggiungo anche quei cittadini da sempre indifferenti alla politica, che abbracciano l’antico detto “Francia o Spagna purché se magna”.
Gli elettori si erano invece impegnati nel passato per referendum più importanti come quello sul divorzio del 1974 con un’affluenza dell’87,7% o dell’aborto del 1981 col 79,4%. Erano scelte nette tra Si e No, con cifre che si avvicinavano a quella dell’89% del referendum del 2 giugno del 1946. Mentre per le prime due la vittoria dei progressisti fu netta, quella della scelta tra Repubblica e Monarchia arrivò dopo complicazioni nei conteggi che furono ripetuti per due volte a causa delle contestazioni dei monarchici sulle schede nulle. Fu la Cassazione a decidere la vittoria della Repubblica per la quale votarono in 12.718.000 contro i 10.718.000 degli avversari.
L’opinione pubblica progressista di quel tempo si aspettava una vittoria più netta dei “repubblicani”: riteneva che tutta la popolazione fosse conscia dei mali provocati al Paese da Vittorio Emanuele III, col permettere la dittatura fascista, accettare le guerre e le leggi sulla razza. Per non parlare della vergognosa fuga dell’8 settembre del 1943.
Ma una buona parte degli italiani anche allora aveva la memoria corta. Per esempio a Napoli, la cui popolazione nelle eroiche “Quattro giornate” dei primi di ottobre del ’43 si ribellò ai tedeschi e li mise in fuga, poi votò all’80% per la monarchia. E anche tutto il Sud aveva preferito il re.

A proposito di memoria corta, sempre presente tra gli italiani, ritorno a ricordare quella degli abitanti di Sant’Anna di Stazzema che nel 2022 hanno votato in maggioranza per un partito che non vuole rinnegare il passato fascista.
I risultati del referendum hanno spesso rappresentato, nella storia democratica italiana, uno strumento capace di scardinare gli equilibri politici consolidati e di dare voce diretta alla volontà popolare, al di là delle logiche di partito. Il recente referendum avrebbe dovuto evidenziare la capacità di una mobilitazione popolare trasversale per contrastare la condotta della maggioranza scaturita dalle elezioni politiche del 2022. In un contesto in cui il Parlamento sembra sempre più distante dalle istanze sociali, il voto referendario avrebbe dovuto lanciare un segnale chiaro di dissenso. Lo ha fatto? Forse no, ma ha certamente confermato l’esistenza delle tensioni e delle trasformazioni reazionarie in atto nel sistema politico italiano.
Bisogna tener presente che promotore del referendum è stato il sindacato della CGIL per sollecitare un governo sordo a intervenire, sui diritti del lavoro, la precarietà dei lavoratori e la questione dei redditi tra i più bassi d’Europa. Vi hanno aggiunto quello sulla cittadinanza degli immigrati. Il PD non poteva esimersi dal sostenere una battaglia su questi temi nonostante una parte minoritaria non fosse d’accordo. All’interno della direzione ci sono stati molti attriti che riguardavano non i principi sociali del referendum, ma la formulazione dei quesiti sottoposti agli elettori.
Elly Schlein sui numeri dell’affluenza ha affermato che «hanno superato quelli del 2022 con cui la Meloni è arrivata al governo». Ma è stata una battuta consolatoria che poteva fare a meno di pronunciare. Le si potrebbe rispondere: «Allora perché il centro sinistra non vinse quelle elezioni?».
A quei tempi lei non c’era. Il segretario di allora era Enrico Letta, che i vertici del Nazareno avevano richiamato in gran fretta da Parigi per rimettere in ordine un partito frantumato dalla “rottamazione” di Renzi. La campagna elettorale fu inesistente e il “campo largo” ideato da Letta non ebbe seguito: una alleanza con i 5Stelle si era resa impossibile.
A proposito di quel movimento creato dal comico Grillo – non dimentichiamo lo slogan del “vaffa” – penso che abbia procurato danni all’Italia alla pari di quanti ne ha fatti Berlusconi.