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Attenti intellettuali. Giuli vi osserva

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Nei programmi dell’appena nato governo Meloni, tra gli obiettivi principali veniva enunciato quello di combattere la cultura definita “di sinistra, comunista e bolscevica”. Il compito venne affidato al ministro Gennaro Sangiuliano, che combinò soltanto guai e commise gaffe in continuazione.

Gli è succeduto Alessandro Giuli, un giornalista proveniente dal Msi che all’inizio appariva molto conciliante invitando la destra a «non vedere la cultura come il terreno di una guerra di trincea in cui eserciti contrapposti si contendono posizioni di potere».

Poi si è rimangiato quelle parole col grido di battaglia che diceva «stiamo governando la cultura da veri patrioti», sparando a zero su un lungo elenco di nemici “sovversivi” come Saviano, Augias, Scurati, Gruber, Fazio, Massini e altri. Facendo un repulisti tra i vertici degli Uffizi, di Brera, del Centro sperimentale di cinematografia. Insomma è stato un ritorno ideale al Minculpop mussoliniano.

Pertanto il risultato è che oggi la politica culturale della destra si manifesta in tagli, superficialità e strumentalizzazioni ideologiche. I finanziamenti pubblici, già insufficienti, subiscono ulteriori ridimensionamenti, mentre si privilegiano eventi folkloristici o propagandistici. Le istituzioni culturali vengono affidate a figure spesso senza competenze specifiche, scelte più per fedeltà politica che per merito.

La scuola e l’università, fondamenta della crescita culturale, sono sempre più trascurate, con programmi svuotati e precarizzazione diffusa. L’arte e la letteratura sono ridotte a decorazioni, non strumenti critici di analisi e coscienza. Intanto, chi opera nel settore culturale fatica a sopravvivere, ignorato nelle politiche pubbliche.

Il patrimonio artistico viene sfruttato come vetrina turistica, non come bene comune da tutelare. In nome di un nazionalismo sterile, si riscrive la storia e si censura il dissenso. È una regressione culturale che impoverisce l’identità stessa del Paese.

Una regressione che gestita da questo potere in mano a personaggi rozzi, frustrati e vendicativi, va a sfociare nel vuoto più assoluto. Colmano il loro “sapere” con slogan senza rendersi conto che “Dio, patria e famiglia” e altro, non creano una egemonia culturale.

Tra i pochi nomi illustri della loro cultura citano Tolkien, Gabriele D’Annunzio, senza sapere che quest’ultimo era fascista per opportunismo, perché Mussolini aveva addossato allo Stato tutti i debiti che il Vate aveva contratto per le sue spese da megalomane. Poi il duce se lo levò di torno relegandolo con tanti onori al Vittoriale. Tra i movimenti culturali ricordano il Futurismo che aderì al fascismo solo all’inizio credendolo rivoluzionario. Gli intellettuali di oggi definiti di destra si guardano bene dal mescolarsi con questo governo.

Per esempio scrittori come Marcello Veneziani, Geminello Alvi, Federico Basso Zaffagno, lo storico Giordano Bruno Guerri, compaiono raramente ai talk show televisivi; molto saggiamente non vogliono mescolarsi con personaggi come Lollobrigida, Bocchino, Sechi, e altri rappresentanti di questo potere. E poi non si considerano di destra, ma conservatori.
Zaffagno in un suo aforisma dice: «Il vero conservatore non è un tifoso o un accanito, ma un pacato realista…»

In un altro aforisma il poeta Claudio Damiani afferma che «Patriota non è colui che canta inni e sventola bandiere, patriota è chi desidera una sempre maggiore intimità con le città amate, con le regioni dilette». Guerri a una domanda di una giornalista Rai, ha risposto che il governo sulla cultura ha intrapreso un cammino sbagliato e ridicolo.

Ma allora la cultura è di destra o di sinistra?

La risposta potrebbe essere che la cultura appartiene a tutti: è un sistema di produzione di significati, simboli e conflitti ideologici di una società alla cui costruzione culturale partecipano destra (intesa come conservatrice) e sinistra progressista: la prima dovrebbe valorizzare la tradizione, l’identità nazionale e il patrimonio storico, mentre la seconda dovrebbe puntare sulla democratizzazione dell’accesso alla cultura e la valorizzazione delle minoranze. Sono prospettive diverse ma non incompatibili.

I conservatori non hanno niente da spartire con i fascismi e anche col governo italiano attuale che pretende un’egemonia culturale per poi rimuovere la diffusione della conoscenza allo scopo di creare un’opinione pubblica ignorante e ubbidiente.

Per quanto riguarda gli intellettuali, soprattutto gli scrittori, il confronto tra desta e sinistra appare più complicato. È certo che uno scrittore non solidarizza mai col potere, anzi lo combatte quando il potere intende sopprimere le libertà.

Un esempio è la frase “l’intellettuale non deve mai suonare il piffero della rivoluzione”, scritta da Elio Vittorini nel 1947 sul N° 35 del Politecnico in un articolo in cui rivendica l’indipendenza della cultura dalla politica. Era una risposta alle dure critiche ricevute prima da Mario Alicata, poi da Togliatti che definirono il giornale di Vittorini, attraverso Rinascita, “borghese e antioperaio, con una visione autonoma e corporativa”. Oltre alle critiche il Pci gli aveva imposto di sottoporre le bozze del Politecnico alla direzione del partito, prima che andassero in stampa.

Ovviamente Vittorini si rifiutò e mesi dopo il settimanale dovette chiudere perché il Pci gli tolse l’appoggio che consisteva nella distribuzione.Lo scrittore sosteneva che «cultura e politica sono due attività con compiti diversi (la cultura ha il compito di “ricercare”, di scoprire nuove mete dalle quali la politica possa prender spunto per la sua azione) e che i pericoli sia per la cultura sia per la politica consistono nel trasformarsi in “sistemi” chiusi, nel non essere più aperti alla ricerca e al cambiamento, nel credere di possedere già, una volta per sempre, la verità».

Un altro esempio è quello di Italo Calvino che nel 1956, durante la repressione sovietica in Ungheria, restituì la tessera del Pci spiegando il suo dissenso con una lettera che l’Unità gli pubblicò. Vi scrisse tra l’altro che «La via seguita dal Pci, attenuando propositi innovatori in un sostanziale conservatorismo, mi è parsa come la rinuncia a una grande occasione storica… Non ho mai creduto che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi ha dato sprone nel dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa».

Sempre in quell’occasione, Romano Bilenchi direttore del quotidiano fiorentino Il Nuovo Corriere (finanziato dal Pci) scrisse che “i carri armati sovietici sparavano contro gli operai ungheresi”. Quel giornale fu costretto a chiudere.

Anche all’estero molti intellettuali si erano ribellati contro le sopraffazioni comuniste. Arthur Koestler, scrittore e giornalista ungherese (Buio a mezzogiorno, Ladri nella notte) rifugiatosi a Parigi, lasciò il Partito nel 1938, per protesta contro le “purghe staliniane”.

Sempre a Parigi il giovane intellettuale Paul Nizan, amico di Sartre, uscì dal Partito in seguito al trattato Molotov-Ribbentrop. Morì in guerra.

Il filosofo Edgar Morin, iscritto al Partito comunista francese nel 1941, se ne allontanò nel 1956 “senza far rumore”, come racconta.

Ezra Pound con Pier Paolo Pasolini (Cineteca Bologna)

Il poeta americano Ezra Pound, considerato tra i maggiori e il più innovativo del Ventesimo secolo, era politicamente controverso per la sua adesione al nazifascismo.

«Se Ezra Pound fosse morto negli Anni Venti sarebbe stato tra gli intellettuali di sinistra», scriveva Claudio Gorlier(scrittore e anglista). Difatti il poeta quando viveva ancora negli USA, si dichiarava «contro gli interessi della società del profitto, contro la degenerazione capitalistica degli ideali di Jefferson nella rivoluzione americana». Erano idee che si intonavano con quelle di Mark Twain e Jack London.
Perché poi, trasferitosi negli Anni trenta in Europa e stabilitosi in Italia, Pound divenne un modello per la destra e criticato a sinistra? Forse perché, nella sua visione del mondo credette di trovare nel fascismo italiano l’alternativa al trionfo del privilegio e in Mussolini il nuovo Jefferson.

Durante la guerra, Pound alla Radio di Salò, parlò degli Stati Uniti, della corruzione, del profitto e dall’affarismo – che definiva usura – ma si macchiò anche di propaganda fascista e antisemita. Con la liberazione i partigiani lo consegnarono agli americani i quali, accusandolo di alto tradimento, lo trasferirono nel campo di concentramento per nazisti e repubblichini di Coltano, nella pineta di Tombolo (tra Livorno e Pisa) e lo chiusero in una gabbia di ferro.

In difesa del poeta molti intellettuali “di sinistra”, da Hemingway a Steinbeck, da Sartre a Vittorini ne chiesero la liberazione accusando il governo americano di aver usato nei suoi riguardi misure più severe di quelle usate per certi criminali nazisti. Fu rinchiuso per qualche anno in manicomio e poi ritornò in Italia stabilendosi a Venezia dove morì nel 1972 a 87 anni. «La sua importanza storica rimane al di là delle cadute dell’uomo», disse di lui Hemingway.

Oggi viene ricordato da un gruppo di neofascisti che hanno chiamato il loro movimento “Casa Pound”, nonostante le proteste della figlia del poeta.

Concludo con un aforisma di Leonardo Sciascia: «Il fascismo non è morto. Quando tra gli imbecilli e i furbi si stabilisce un’alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte».

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