
Il “rosso” di certi contestatori si tinge di “nero”
L’intrusione nell’ Università Ca’ Foscari di un gruppo di “giovani comunisti pro Palestina” per impedire di parlare a Emanuele Fiano, di origine ebraica ex deputato del Partito democratico, docente di architettura e presidente del movimento Sinistra per Israele, spinge a una serie di riflessioni.
Prima di tutto è scandaloso che un ateneo – luogo che per definizione dovrebbe essere tempio del libero dibattito, della pluralità delle idee e del confronto ragionato – sia stato ridotto a teatro da un assalto pseudo ideologico orchestrato. L’ingresso forzato e l’interruzione della conferenza di Fiano sul sionismo, in piena sede universitaria, tradisce l’essenza stessa della formazione accademica. Invece di promuovere il dialogo e la civiltà del confronto, quei ragazzini hanno scelto la logica dell’interruzione, della prepotenza, della sopraffazione delle idee altrui.
È stata un’azione vergognosa che riporta agli Anni sessanta, quando tanti giovani che si dichiaravano “comunisti leninisti e maoisti” irrompevano nelle università aggredendo altri giovani di idee diverse e professori, lanciando contro questi ultimi ignobili attacchi verbali e ben altro. A Firenze, ricordo, il filosofo Eugenio Garin che venne coperto di sputi, ne rimase sconvolto al punto da dimettersi dall’insegnamento.
Oggi quello spettacolo, provocato dal gruppetto di studenti che oltre alle urla hanno mostrato il segno della “P 38”, si è ripetuto in forma minore rispetto al passato, ma rimane pur sempre molto grave. Sarebbe comunque ridicolo un confronto tra quei ragazzi e la generazione precedente. Negli Anni sessanta la gioventù voleva rompere con le istituzioni conservatrici ancora sostenute da leggi fasciste, con una protesta generale che poi in parte tracimò nel terrorismo. Dietro quelli di oggi c’è solo un vuoto da colmare.
Di fronte all’interruzione, la reazione di Fiano è stata esemplare: ha cercato il dialogo con alcuni giovincelli del manipolo pro Palestina ma questi gli hanno risposto: «Di quello che tu dici, a noi ce ne può fregare di meno». Il professore ha replicato: «Siete dei fascisti, perché chi vuol sopprimere le parole dell’altro non appartiene alla democrazia ma ai totalitarismi».

E aveva ragione: la parola fascismo non indica soltanto quel movimento fondato da Mussolini verso il quale molti nostri governanti manifestano nostalgia, ma significa sopraffazione, oppressione, sopruso, prepotenza e violenza. In Spagna si chiamava “franchismo”, nella Germania di Hitler “nazismo”, oltre la Cortina di ferro “comunismo”, offendendo il pensiero di Marx, dal quale sosteneva di derivare.
Quei “fascistelli in rosso” di Ca’ Foscari e altri sparsi nel resto del Paese, invece di fare il saluto romano e sporcare i muri con le svastiche come i loro coetanei “in nero”, usano la falce e il martello e si dicono comunisti in lotta contro il sionismo e la strage del popolo palestinese voluta da Netanyahu. Ma in realtà i due gruppi in apparenza opposti, sono identici nell’ignoranza e nella prepotenza.
Poco mesi fa dopo aver fatto una conferenza non politica (senza interruzioni) in un liceo di Milano, mi fermai a parlare con un gruppo di studenti che giorni prima avevano manifestato civilmente pro Palestina. Chiesero il mio parere e dopo aver accennato alla storia di quella regione, domandai ad alcuni di loro in che parte del mondo si trovasse. Chiesi anche se conoscevano l’anno della nascita dello Stato d’Israele. Le risposte dei più furono un generico “Medio Oriente”, oppure “vicino all’Iran”, “all’Afghanistan”, “alla Turchia”. E sulla nascita dello Stato ebraico dissero “dopo la guerra dei sei giorni”, “dopo quella del Kippur”. Alle domande sull’OLP, solo due dissero qualcosa.
Mi venne in mente la mia gioventù quando dai cortei sentivo urlare “Arafat vincerà” oppure “viva Stalin, viva Lenin, viva Mao Tse Tung” o cantare “l’Internazionale di Lenin” (titolo ma esistito). Ignoravano le stragi compiute da Stalin e quelle in corso della Rivoluzione culturale di Mao.
Ricordo anche quando il leader della CGIL Luciano Lama, nel febbraio del 1977 venne duramente contestato e interrotto durante un suo comizio davanti all’Università La Sapienza di Roma. La contestazione fu organizzata dal movimento studentesco e da gruppi della sinistra extraparlamentare tra i quali “Autonomia operaia” e “Indiani metropolitani”. Quell’episodio segnò la profonda frattura tra il sindacato tradizionale e i movimenti giovanili. Costoro politicamente si dettero la zappa sui piedi.
Non parli, perché non sei gradito. È il messaggio che vale per allora e per oggi, una versione plebea e delegittimata del compromesso democratico: «Non vinco attraverso le argomentazioni, ma attraverso il silenzio imposto all’avversario».
In conclusione: questa irruzione non è solo un fatto locale o momentaneo, ma un campanello d’allarme per tutte le università italiane e per la stessa idea di libertà di studio, insegnamento e ricerca. Se oggi non si ferma questa logica, l’università potrà diventare un circuito chiuso, dove si insegna solo ciò che è gradito, e si censura ciò che è scomodo. Inoltre, verrebbe dato maggiore spazio alle mire repressive di questo governo.


