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Vince chi molla

Tempo di lettura: 6 minuti

Ci sono canzoni che sono poesie, parole che entrano dritte nel cuore e che si trasformano in insegnamenti di vita, come il brano “Vince chi molla” di Niccolò Fabi (2016), che vi consiglio di ascoltare in un momento di tranquillità e disponibilità. Nelle sue strofe ritrovo un invito potente e allo stesso tempo delicato: imparare l’arte del lasciar andare

«Lascio andare la mano
che mi stringe la gola
Lascio andare la fune
Che mi unisce alla riva
Il moschettone nella parete
L’orgoglio e la sete
Lascio andare le valigie
I mobili antichi
Le sentinelle armate in garitta
A ogni mia cosa trafitta
Lascio andare il destino
Tutti i miei attaccamenti
I diplomi appesi in salotto
Il coltello tra i denti
Lascio andare mio padre e mia madre
E le loro paure
Quella casa nella foresta
Un umore che duri davvero
Per ogni tipo di viaggio
Meglio avere un bagaglio leggero
Distendo le vene
E apro piano le mani
Cerco di non trattenere più nulla
Lascio tutto fluire
L’aria dal naso arriva ai polmoni
Le palpitazioni tornano battiti
La testa torna al suo peso normale
La salvezza non si controlla
Vince chi molla
Vince chi molla»

Ogni verso di questa canzone sembrerebbe aprire immagini simboliche e metaforiche, evocando una lettura più profonda. Il testo si apre con le parole “Lascio andare la mano che mi stringe la gola”, ove la mano potrebbe rappresentare l’ansia, le pressioni esterne o quella interna, una morsa che toglie respiro e che mollarla significherebbe sciogliere la stretta, alleggerirsi per tornare a respirare. Poco dopo prosegue con “Lascio andare la fune che mi unisce alla riva”, un gesto potente e coraggioso, che potrebbe essere un invito ad abbandonare la sicurezza che ci lega al già noto, ma che al tempo stesso potrebbe impedirci il movimento e la possibilità di fluire per scorrere oltre. Così come il “moschettone nella parete” richiama ancora il tema della sicurezza, tenendoci agganciati e protetti, ma anche fermi: aprire il moschettone potrebbe essere visto come un atto di fiducia, un abbandonarsi al flusso della vita.

Seguono le zavorre, come “le valigie, i mobili antichi” che potrebbero raffigurare il passato, i pesi materiali e simbolici che trasciniamo, oltre alle “sentinelle armate in garitta” che parrebbero evocare i meccanismi di difesa della psiche, sempre pronti a proteggere ma anche a irrigidirci.

Quando Niccolò canta “Lascio andare il destino, tutti i miei attaccamenti”, l’immagine si potrebbe allargare a un piano universale: non solo cose o difese, ma l’idea stessa di controllare il futuro, come un invito a ricordarci che la vita non è prevedibile.

I “diplomi appesi in salotto” potrebbero essere visti come simbolo di riconoscimento sociale, di identità costruita sul giudizio o le aspettative altrui, ed il “coltello tra i denti” potrebbe invece indicare un atteggiamento di lotta, di sopravvivenza aggressiva: mollare significherebbe rinunciare a combattere a ogni costo, a difendere strenuamente le proprie certezze.

Il verso intimo “Lascio andare mio padre e mia madre e le loro paure” sembrerebbe riferirsi all’emancipazione dai condizionamenti familiari, dalle eredità emotive che continuano a pesare e condizionarci, invitandoci ad affrontare il passo dell’individuazione e dell’adultità, riconoscendo ciò che si è ricevuto per avere poi il coraggio di liberarsene.

Anche “quella casa nella foresta” e “un umore che duri davvero” potrebbero rimandare a illusioni di rifugi perfetti o di stabilità emotiva duratura. Il testo, in questa chiave, ricorderebbe che nulla è stabile per sempre, che ogni rifugio è temporaneo e che anche l’umore è cambiante per sua natura.

Nella parte conclusiva, l’attenzione si sposta sul corpo “Distendo le vene e apro piano le mani, cerco di non trattenere più nulla. Lascio tutto fluire: l’aria dal naso arriva ai polmoni, le palpitazioni tornano battiti, la testa torna al suo peso normale.”: qui si potrebbe leggere la restituzione della calma, il corpo che si libera quando la mente smette di trattenere. Questo verso mi ha facilmente portato alla mente la pratica yogica, a me tanto familiare.

Infatti, nella pratica dello yoga e della meditazione il gesto interiore del “lasciar andare” è un invito costante, un allenamento fondamentale: respirare, sciogliere la presa, lasciare che ciò che non serve più scivoli via, lasciarsi attraversare da ogni stimolo che giunge a noi per poter permanere nella nostra tranquillità. Il corpo lo sa bene, forse più della nostra mente razionale: se trattengo, irrigidisco, mentre se abbandono, mi apro e mi distendo. È un apprendimento che non resta solo sul tappetino, ma che ci accompagna nel quotidiano portando una grande trasformazione in ogni piccolo gesto.

Nella trasmissione dello yoga non duale del Kashmir, Eric Baret spesso ripete che questa disciplina ci insegna a morire, non nel senso tragico del termine, ma come invito a un esercizio costante di abbandono: morire a ogni attaccamento, a ogni tensione, a ogni identificazione che ci imprigiona. Imparare a morire significa imparare a non trattenere nulla: i pensieri, le emozioni, le relazioni, persino l’idea che abbiamo di noi stessi. Morire è giacere nella pausa a vuoto del respiro, dopo l’espiro, nel nulla e, al contempo, nella possibilità infinita del tutto: nasco e muoio in ogni ciclo del respiro.

Amare e lasciar andare sono forse i due compiti fondamentali, le due posture dell’anima, intrinsecamente connesse e inseparabili dell’esistenza umana: non si può amare davvero senza rinunciare a possedere, e solo attraverso l’amore si può sostenere il dolore della separazione.

Lasciare andare non significa abbandonare le responsabilità, ma imparare a non stringere con troppa forza, non trattenere, non incatenare. Vale per le emozioni che ci attraversano, così come per le ferite che portiamo e per i rancori che ci logorano. Ma vale anche, e soprattutto, per i legami più profondi: la famiglia che ci ha trasmesso doni e fardelli, le amicizie che ci hanno accompagnato per un tratto di strada, gli amori vissuti e finiti, i figli che crescono, persino i nostri animali domestici.

Spesso crediamo di poter controllare tutto, ma la verità è che niente e nessuno è davvero “nostro”. Possiamo prenderci cura, accompagnare, nutrire, amare, ma dovremmo farlo sempre con la consapevolezza che l’altro è libero di essere se stesso, di scegliere, di amarci, di cambiare, di restare o di andarsene.

Alleggerire il cammino, mollare la presa, è un atto di fiducia in noi stessi, negli altri e nella vita. È riconoscere che non siamo proprietari di nulla, ma sempre e solo custodi temporanei. È scoprire che la vera forza sta nel non trattenere, nel non afferrare e nel lasciare fluire.

Karl Jaspers chiamava “situazioni-limite” quegli eventi, come la morte, la colpa, la sofferenza, che ci costringono a toccare con mano la nostra vulnerabilità. È qui che siamo chiamati a un compito fondamentale: non chiuderci, non irrigidirci, ma imparare, appunto, a lasciare andare.

Questo invito lo ritroviamo anche nello scritto di Mario Mapelli (laureato in Storia e in Scienze della Formazione, dottore di ricerca in Scienze della Formazione e della Comunicazione) “Imparare a lasciar andare. Formare all’accompagnamento nelle fasi estreme della vita.” (articolo accademico pubblicato su “Encyclopaideia” nel 2014), nel quale esplora il tema dell’accompagnamento nelle fasi estreme della vita, con particolare attenzione alla formazione degli operatori sanitari e alla gestione del dolore, della perdita e della morte. Mapelli, in questo delicato e interessante articolo, ci ricorda che il lasciar andare non è solo un percorso che riguarda chi si avvicina alla fine, ma una competenza esistenziale che ci interpella tutti.

Ogni giorno siamo chiamati a fare esperienza di piccole morti, di trasformazioni che richiedono di sciogliere la presa. Scrive: “A ben vedere, però, non c’è nulla da insegnare riguardo alla morte e alla separazione, nessun apprendimento può mai essere definitivo. Anche se, dopo un percorso di dolore, sembra di essere giunti a una qualche verità, questa non ci potrà porre al riparo dalla sofferenza per la perdita successiva. Tanto meno potremo usare la nostra supposta conoscenza per lenire la ferita di qualcun altro, giacché i processi di elaborazione e di congedo seguono per ognuno strade differenti (Mapelli, 2013). (…) Proprio per questo, però, ancor più indispensabile risulta l’esercizio dell’ascolto. In tutte le professioni di cura che si giocano sul piano della relazione, il vero “ferro del mestiere” è la persona del curante. Come scrive Eugenio Borgna: “Nell’esperienza del dolore, del dolore che è in noi, e del dolore che è negli altri da noi, sono in gioco le nostre attitudini ad ascoltare e a entrare in relazione con noi stessi nella introspezione e con gli altri nella immedesimazione: l’una e l’altra in un dialogo senza fine” (Borgna, 2014, p. 42). Solo cimentandosi in prima persona con il tema del limite e con l’esperienza del dolore è possibile stare accanto a colui che soffre. Esercitarsi a lasciare andare significa allora cercare di cogliere tutti i riverberi emotivi suscitati dai distacchi, dalle separazioni e dalle perdite che hanno segnato la nostra vita.”

La presenza silenziosa, l’esercizio dell’ascolto, il saper fare un passo indietro, l’accettazione del limite, l’abbandono dell’onnipotenza, la semplicità non sono superficialità, ma saggezza profonda e leggera che nasce quando impariamo che non tutto dipende da noi, che possiamo e dobbiamo respirare per lasciare spazio alla vita in ogni sua sfumatura.

Perché, forse, davvero “vince chi molla”

Beautiful butterfly sits on a palm – Depositphotos
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