Le università inglesi in sciopero contro la stangata del governo
Da mercoledì 24 maggio, professori, docenti e ricercatori di tutti i gradi della SOAS – una delle università più prestigiose al mondo per gli studi asiatici e africani – sono di nuovo in sciopero. A scatenare questa nuova ondata di protesta è stata la decisone dei dirigenti e del rettore di detrarre il 100% del salario mensile ai lavoratori che avrebbero incrociato le braccia e rifiutato di correggere gli esami e i lavori scritti di fine anno degli studenti.
La correzione degli esami scritti è solo una delle mansioni che il personale docente tipicamente svolge durante l’anno accademico e le detrazioni imposte dall’amministrazione della SOAS sono state interpretate come una misura eccessivamente punitiva, volta ad intimidire i lavoratori e a stroncare la forza del sindacato.
Il settore universitario è da anni in fibrillazione. La protesta comprende oltre 60 università (da Cambridge e Oxford, due dei migliori atenei al mondo, all’ UCL, la più grande). Gli scioperi sono stati indetti da University and College Union (UCU) – che con centoventimila iscritti è il maggior sindacato del mondo dell’istruzione superiore e dell’università – contro la riforma delle pensioni e l’aumento della precarietà tra docenti e ricercatori.
La riforma delle pensioni introdotta dall’Universities Superannuation Scheme (USS) – così si chiama il fondo pensionistico delle università – consiste nel cambiamento del modo in cui vengono calcolate, per cui i beneficiari non riceveranno una pensione corrispondente all’entità dei contributi versati o agli ultimi stipendi ricevuti, bensì si baserà sugli andamenti del mercato finanziario, ovvero sui risultati degli investimenti del fondo. Se andasse in porto, ricercatori e docenti potrebbero rischiare di perdere circa 10 mila sterline (12 mila euro) di pensione all’anno e di vedersi dimezzato il reddito pensionistico totale.
Lo sciopero del settore universitario non ha lo stesso impatto di altre ondate di sciopero che hanno bloccato la Gran Bretagna nei mesi passati. Tanti i lavoratori e le categorie che hanno incrociato le braccia dall’inizio dell’anno: postini, macchinisti dei treni, autisti di bus, personale di università, doganieri di porti o aeroporti, dottori e infermieri.
Eppure, l’università è un settore strategico dell’economia nazionale. La sua importanza per le casse dello Stato è cresciuta in maniera esponenziale da quando sono salite le rette universitarie. Gli studenti britannici adesso pagano nove mila sterline all’anno, mentre la retta degli stranieri sale fino a 12 mila sterline.
E come in un perfetto sistema neoliberista, all’aumento dei costi è corrisposto un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro: precarietà, aumento dei carichi di lavoro, bassi salari, estrema competizione. Il potere d’acquisto del personale universitario è sceso di oltre 17% in termini reali dal 2009 a oggi.
Fino adesso la risposta dei rettori e di UK University (il consorzio di rettorati, e dunque in ultima analisi anche del governo), è stata dura e irremovibile. Per ora si limitano ad osservare e si ostinano a non negoziare. I riverberi di questa riforma del sistema pensionistico vanno al di là del settore universitario. Infatti, se andasse in porto, potrebbe diventare un primo esempio di privatizzazione di un fondo pensionistico semi-pubblico e aprire la porta alla mercatizzazione di tutto il settore.
D’altra parte, non sarebbe la prima volta che la classe dirigente britannica mostra di non avere la minima intenzione di ascoltare le proteste dei lavoratori e di scendere a dialogo con le parti sociali. Lo scorso aprile, il governatore della Banca d’Inghilterra, Huw Pill, aveva detto che i cittadini britannici dovevano accettare di essere più poveri.
Pill aveva fatto questa affermazione in risposta alle continue manifestazioni sindacali in vari settori dell’economia britannica che chiedono un adeguamento dei salari per far fronte al caro vita e un’inflazione galoppante.
La Gran Bretagna sta vivendo una delle più grandi crisi economiche degli ultimi decenni, aggravata non tanto dalla Brexit, dalla pandemia o dalla crisi energetica – bensì dalle rigide politiche di austerità introdotte dai vari governi a guida conservatrice che si sono succeduti dal 2010.
Lo standard di vita è rimasto più o meno stagnante dal 2007. Nell’ultimo anno il carovita si è aggravato. Il prezzo del carrello della spesa è rincarato di quasi il 19% negli ultimi 12 mesi, l’inflazione record continua ad essere quasi al 9% – tra le più alte d’Europa; le bollette energetiche hanno subito un’impennata; milioni di famiglie si trovano ormai sotto la soglia della povertà.
La Resolution Foundation – un’organizzazione che si occupa di studi sul costo della vita – ha dichiarato lo scorso marzo che ci si aspetta che nel 2027 il potere di acquisto delle famiglie britanniche possa essere più basso che durante gli anni della pandemia.
È notizia di ieri che tirocinanti e medici specializzanti del servizio sanitario nazionale hanno votato per scioperare per la seconda volta nel giro di pochi mesi. Si andranno ad aggiungere non solo ai docenti universitari che continuano la protesta fino a metà giugno, ma anche ai macchinisti di treni che si fermeranno la settimana prossima e agli addetti alla sicurezza dell’aeroporto più grande dell’isola (Heathrow) che incrociano le braccia questa settimana.
I cittadini britannici non sono rivoluzionari come i loro vicini francesi. Tuttavia, si tratta della più grande e prolungata mobilitazione dei lavoratori del Regno Unito dagli anni Ottanta. Invece di minacciare di reprimere gli scioperi, la leadership britannica farebbe bene ad ascoltarli.
Foto: una manifestazione organizzata davanti all’università SOAS