L’utopia del realismo
“Si nasce incendiari e si finisce pompieri” è un detto attribuito a tal Pitigrilli, scrittore e aforista 1893–1975, citato in belle canzoni di Rino Gaetano e Ligabue. In quell’aforisma forse ci riconosciamo in tanti della mia generazione sessantottina. In fondo non è altro che una descrizione elementare di quello che succede nella passionale giovane età e quello che accade poi col sopravvenire di una tardiva saggezza o almeno senso della realtà. In politica si chiama Realpolitik, ce l’hanno insegnato i tedeschi, una lezione importante: pragmatismo e concretezza sono attrezzi ben più utili ed efficaci dei principi universali e morali.
Dando prova di aver colto l’insegnamento ma, confuso dalle calure estive, mi permetto di giocare metaforicamente ancora una volta col fuoco perché alla fine i conti non mi tornano anzi, mi turbano.
Con il muro di Berlino, nel 1989 è caduto l’ultimo credito del comunismo, fallito proprio nel suo senso umanistico mai applicato. In quanto al capitalismo, ormai modello unico, solo Papa Francesco ha il coraggio di condannare in modo chiaro la sua disumanità.
Siamo tutti immersi in una economia dove chi scommette sul lavoro d’altri senza neppur sapere di cosa si tratti, non solo guadagna dieci volte tanto, ma ne condiziona le scelte costringendo le imprese a privilegiare le ragioni di resa azionistica rispetto a tutte le altre, soprattutto quelle connesse con il costo del lavoro, ovvero, la vita delle persone.
I famosi derivati che hanno provocato l’ultima dolorosa crisi mondiale (effetto Lehman del 2008) oggi sono in circolo in quantità superiore a quel momento: 620 mila miliardi di dollari secondo il Sole 24 ore, un valore sei volte il PIL globale atteso alla chiusura dell’anno in corso.
Un’economia mondiale drogata dalla finanza che sempre più arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri. E che tutto determina secondo il principio prioritario che nessuno osa mettere in discussione: “business is business”, gli affari sono affari.
La mia impressione è che la politica, anche quella armata delle migliori intenzioni, nella sostanza propone modelli amministrativi diversi, ma non modelli Stato, organizzazione sociale, principi istituzionali differenti. Torno a quelli citati sopra, semplificando: il comunismo prometteva una giustizia economica garantita da una Stato padrone, giusto e disinteressato; il capitalismo prometteva una prosperità diffusa grazie alla libera iniziativa di libere imprese. La storia con i riscontri nel nostro presente, urla che è tutto da rifare, daccapo, in modo tutto nuovo. Urgentemente!
Immagino, nella mia pochezza, che l’idea di uno Stato fondato sulle esperienze della storia, partirebbe da un capovolgimento delle logiche e dei valori condivisi e riguarderebbe tutto: un ripensamento dove al centro c’è – semplicemente e fortemente – la vita delle persone e del pianeta. I delitti contro le persone e la Terra sarebbero reati universali, il più grande e più severamente punito sarebbe la guerra che nessuno Stato, per alcun motivo potrebbe intraprendere. Pena l’intervento fermo e risolutivo dell’unico esercito legittimo, quello senza bandiere, quindi di tutti.
In questo delirio estivo, riesco a immaginare che il primo Nuovo Stato potrebbe presentarsi agli altri Stati come testimone di una novità condivisibile per:
“- 1: Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace.
– 2: Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale.
– 3: Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione.
– 4: Costituire un centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni volta al conseguimento di questi fini comuni.”(*)
Chi mi legge dirà: che ingenuità, è come pensare che una quattordicenne, da sola, potesse dar vita a numerosi movimenti mondiali per la difesa del clima, poi si facesse ricevere dal Parlamento del suo paese e di tanti altri, fino al Parlamento Europeo e i maggiori vertici mondiali e, prima di compiere i 16 anni, attraversasse l’Atlantico con una barca a vela per raggiungere il Palazzo di Vetro, l’ONU, e davanti ai capi di Stato di tutto il mondo gridasse con le lacrime agli occhi:
«È tutto sbagliato. Non dovrei essere quassù. Dovrei essere tornata a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure, voi tutti venite da noi giovani per la speranza. Come osate? Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia, con le vostre parole vuote! (…) Gli occhi di tutte le future generazioni sono su di voi e, se sceglierete di tradirci, vi dico che non vi perdoneremo mai. Non vi lasceremo andare così. Proprio qui, proprio ora, tracciamo il confine». (**)
(*): Articolo 1 dello Statuto delle Nazioni Unite, San Francisco – 26 giugno 1945
(**): Greta Thunberg, 23 settembre 2019, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite
https://www.miur.gov.it/documents/20182/4394634/1.%20Statuto-onu.pdf
https://it.wikipedia.org/wiki/Greta_Thunberg
Foto di Arkela: L.O.V.E. The Finger, scultura dell’artista italiano Maurizio Cattelan di fronte a Palazzo Mezzanotte (Palazzo della Borsa di Milano)