Perché la tragedia di Giulia ha commosso anche l’India
Molti media indiani hanno dato rilievo alla tragedia italiana di Giulia Cecchettin perché ricorda un episodio di violenza contro le donne accaduto in India e che scatenò l’orrore e l’indignazione dell’opinione pubblica. Sono passati esattamente 13 anni da quando in una sera di dicembre a New Delhi, una studentessa di fisioterapia di 23 anni, ribattezzata dai media Nirbhaya (l’impavida) venne aggredita e violentata mentre tornava a casa con un amico (anche lui aggredito) dopo aver visto un film in uno dei cinema multisala della città.
Nirbhaya fu ricoverata in condizioni drammatiche, con lesioni mortali agli organi vitali risultato di sevizie crudeli. Morì 13 giorni dopo in un ospedale di Singapore dove fu portata per un estremo tentativo di salvarla, ma non prima di rilasciare tre dichiarazioni ai medici e a due magistrati, dichiarazioni che furono cruciali alle indagini della polizia.
Nei giorni che seguirono e poi con la morte di Nirbhaya, milioni di giovani (tante ragazze ma anche tantissimi ragazzi) si riversarono nelle strade della capitale indiana e nel resto del Paese. Nirbhaya divenne simbolo della violenza e degli abusi contro le donne spesso risultati di usanze patriarcali, ma anche di un sistema legale che non proteggeva le donne. Le proteste andarono avanti per giorni e furono talmente massicce che la polizia fu costretta a usare idranti e lacrimogeni, e infine ad imporre il coprifuoco nella capitale.
In risposta a queste proteste di massa, il governo – con un’alacrità insolita in India – lanciò campagne di sensibilizzazione e istituì linee di assistenza telefonica, oltre che a creare strutture per accogliere donne abusate. Gli aggressori di Nirbhaya furono tutti arrestati quasi subito e processati. Otto anni dopo, 4 di loro furono impiccati. Fu il primo caso di condanna capitale per reati sessuali.
Negli anni successivi alla morte di Nirbhaya, l’India si impegnò anche a modificare le leggi penali e le procedure investigative, incluso anche il modo in cui i minori vengono perseguiti (uno degli accusati aveva solo 16 anni). In un Paese dove la giustizia si muove in tempi glaciali, questi sviluppi furono emblematici.
Non dovrebbe sorprendere dunque che i media indiani abbiano riportato la notizia dell’uccisione di Giulia Cecchettin. Le somiglianze fra i due casi sono purtroppo molte. Le due vittime, due giovani donne, sono state uccise perché colpevoli di essere libere e indipendenti.
Come in India, anche in Italia, l’omicidio di Giulia ha portato un’ondata di dolore e rabbia senza precedenti, con diverse proteste in tutto il Paese, con migliaia di ragazzi scesi in piazza accanto alle ragazze. Come in India, pochi giorni dopo l’omicidio, i legislatori si sono mossi in una rara dimostrazione di unanimità per sostenere una serie di misure per reprimere la violenza contro le donne.
E proprio come a Delhi, questo tragico evento è stato definito un momento spartiacque. Finalmente, la questione della violenza contro le donne, dei femminicidi e del patriarcato è entrata di prepotenza nei dibattiti televisivi, sui social media e alla televisione. Al funerale di Giulia, suo padre, rivolgendosi principalmente agli uomini, con un tono educato e privo di rabbia, ha esplicitamente identificato nel patriarcato la radice culturale del femminicidio.
L’altra sua figlia Elena con una forte determinazione e rabbia, aveva invece dato voce a questa nuova consapevolezza collettiva esortando a non rimanere in silenzio e a “bruciare tutto”.
Ma siamo veramente giunti ad un punto di svolta?
Attualmente c’è grande sensibilità, con dibattiti e molte discussioni sul tema dei femminicidi. Sicuramente questa tragica storia ha scatenato una maggiore partecipazione rispetto ad altri eventi di questo genere. Aver identificato la struttura del patriarcato come matrice della violenza di genere ha segnato un importante cambiamento nei modi in cui il femminicidio viene discusso. Ma la durata dell’attenzione sulla questione rimane incerta. Si stanno già trascurando altri casi di femminicidio.
In India, il caso di Nirbhaya ha spianato la strada, non solo a riforme legislative, ma anche a varie ONG e gruppi di sostegno per fornire la consulenza e l’assistenza alle vittime di violenza sessuale e donne in generale. Molte città hanno aumentato l’illuminazione stradale e le telecamere di sorveglianza per garantire la sicurezza nelle città alle proprie donne. Nonostante ciò, secondo recenti statistiche, ogni 20 minuti, una donna viene violentata in India, per un totale di oltre venticinquemila casi di stupro registrati in un anno (ricordiamoci che questi sono solo i casi riportati).
È ovvio che ci sia ancora molta strada da fare prima di sradicare completamente la violenza sessuale.
Se proprio vogliamo che questa vicenda diventi veramente un punto di svolta, questo processo di cambiamento della mentalità prevalente nei rapporti di forza e di potere fra maschi e femmine deve procedere inesorabilmente. La vera consapevolezza si ottiene solo quando farà parte della nostra quotidianità. Questo può accadere solo con un grande sforzo da parte di tutti noi. Non possiamo lasciare che sia lo Stato a prendere l’iniziativa, perché, come ci insegna l’India, nuove leggi e maggiore illuminazione nelle strade non saranno mai abbastanza.
Copertina: Ragazze indiane protestano dopo lo stupro e l’assassinio di una giovane a Delhi