Alle donne illustri solo gli angoli della memoria
A chi sono intitolate le nostre vie? Nella stragrande maggioranza a uomini. Lo testimonia il progetto europeo Mapping diversity (realizzato da OBC Transeuropa e Sheldon studio per EDJNet la rete di testate indipendenti e di unità di data Journalism).
Per capirci: alcune città italiane come Roma, Milano, Torino, Genova hanno dedicato alle donne una percentuale di vie tra il 5 e il 7 per cento. La città che vede la maggior percentuale di vie a loro dedicate è Bolzano (13 per cento), ma secondo l’associazione Toponomastica Femminile che ha fatto i conti in tutto il Paese la percentuale di spazi pubblici intitolati a donne è ancora più bassa, tra il 3 e il 5 per cento (in Europa siamo al 9). Per rimediare a questa disparità l’Associazione propone ai Comuni di dedicare ogni 8 marzo tre vie o spazi a donne.
Chi sono queste donne? In gran parte madonne, sante e martiri. Solo una piccolissima parte sono donne che non hanno a che fare con la religione. Eppure, in Italia non mancano le scienziate, le letterate, le artiste, le magistrate, le poliziotte, le insegnati meritevoli di un riconoscimento pubblico che non trovano ancora posto sulle targhe agli incroci delle strade. Per curiosità la donna con più dediche è Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura.
Alcune città stanno tentando di riequilibrare questa notevole disparità utilizzando spazi come giardini o passeggiate. Prima di Pasqua Milano ha intitolato una piazzetta del centro all’attrice Lilla Brignone che diede un grande contributo alla vita del Piccolo Teatro. L’amministrazione ha arricchito questo spazio con un particolare mosaico dedicato, invece, a Rosa Genoni, una donna che ben rappresenta lo spirito della città e che è interessante conoscere per sapere quanto, incredibilmente, donne come lei non trovino spazio nei libri di storia.
Rosa era nata a Tirano, in provincia di Sondrio, nel 1867. La sua era una famiglia poverissima con tantissimi figli, così a 9 anni Rosa ha seguito una zia a Milano per lavorare nella sua sartoria. Diventò così una ‘piscinina’ ovvero una bambina apprendista sarta. In città erano tantissime le piscinine, avevano tra i 6 e i 15 anni, erano spesso maltrattate e costrette a svolgere lavori che nulla avevano a che fare con la professione.
La loro situazione era così insostenibile che organizzarono uno sciopero nel1902 durato una settimana. La loro leader era una 14enne, Giovanna Lombardi. Derise dalla stampa, alla fine queste ragazzine, con l’aiuto della Camera del lavoro e dell’Unione femminile, ottennero un riconoscimento economico (volevano 50 centesimi al giorno ne guadagnavano 20/30), una pausa settimanale dal lavoro e l’impegno che i pacchi che dovevano trasportare fino a casa delle clienti non superasse i 10 kg.
La Genoni mentre imparava, si appassionava alla moda e la sera studiava. Dopo il diploma elementare si dedicò allo studio del francese, la moda non era forse parigina? Allo stesso tempo si era avvicinata ai circoli socialisti e, grazie al suo impegno politico, ebbe l’opportunità di andare a Parigi dove studiò il sistema moda francese.
Tornata a Milano è passata dai migliori atelier per cominciare a creare una moda italiana, il made in Italy che coinvolgeva anche nomi noti della produzione tessile come il conte Visconti di Modrone. La nuova moda attingeva dalla storia dell’arte alla pittura. Proprio con le sue allieve (nel frattempo insegnava anche presso la Società Umanitaria, dove dirigeva la sezione sartoria, biancheria e modisteria) ha realizzato e presentato all’Expo del 1906 abiti che hanno lasciato un segno nel costume.
Rosa era anche un’attivista politica e ha partecipato nel 1908 al I Congresso delle Donne Italiane. Con l’amica Anna Kuliscioff si batté contro il lavoro notturno delle donne e dei bambini, i lavori pericolosi e perché le madri ottenessero un congedo di almeno due mesi.
Era una pacifista e prese posizione contro la guerra di Libia e la Prima guerra mondiale. Quando c’era bisogno di aiutare non mancava di farlo per esempio creò l’associazione, la Pro umanitate, per inviare il pane ai soldati italiani prigionieri e accogliere quelli che arrivavano provati dal fronte alla stazione di Milano.
Nel 1915 partecipò, unica donna italiana, al Congresso internazionale femminile dell’Aja e incontrò diversi primi ministri nel tentativo di perorare le ragioni della pace. Continuò a insegnare fino al 1930 quando si rifiutò di giurare fedeltà al fascismo, due anni prima aveva fondato un laboratorio di sartoria, un asilo nido e persino un ambulatorio ginecologico per le detenute del carcere di San Vittore. Contribuì alla Resistenza e si spense a Varese nel 1954.
Tornando alle nostre vie un esempio: sempre a Milano c’è un vicolo dedicato ai lavandai, è un luogo caratteristico della vecchia Milano dei Navigli. Non esiste, invece, un vicolo lavandaie. Eppure, un numero elevatissimo di donne ha lavato i panni della città sulle stesse rive dei canali. Lo stesso discorso vale per le statue, a Milano su 120 solo due sono dedicate alle donne: Cristina Trivulzio Belgiojoso e Margherita Hack.
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