Identici a chi?
«Voglio parlare a nome di tutti gli europei che sono stati espropriati dei loro diritti etnici, autoctoni, culturali e territoriali. Le nostre nazioni, così come l’Europa, non sono vere democrazie: è forse democratico che una nazione non sia consultata sulla eventualità che diventi multiculturale? E’ democratico costringere i cittadini a diventare minoranza nei loro paesi?»
L’avete riconosciuto il ragionamento? Tipico identitario patriota, con l’orrore per la cosiddetta “sostituzione etnica”. Chi può avere detto la frase di cui sopra? Scommetto che ai lettori qualche faccia governativa è apparsa nell’immaginazione.
Invece la frase è stata pronunciata da Anders Breivik in un tribunale di Oslo, il 24 agosto 2012 poco prima di essere condannato a ventuno anni di carcere – pena massima prevista dalla legge norvegese – per aver ucciso 77 ragazzi che si trovavano in soggiorno estivo sull’isola di Utøya, poco distante da Oslo, organizzato dalla Lega dei Lavoratori della Gioventù (AUF) vicina al Partito Laburista Norvegese, il 22 luglio 2011. Molte centinaia i feriti da armi da fuoco impugnate dal trentenne di estrema destra Breivik, che si sono aggiunti a quelli vittime di una manovra diversiva dello stesso terrorista che piazzò una bomba poche ore prima della strage in un furgone, proprio sotto l’ufficio del Primo Ministro norvegese laburista Jens Stoltenberg, divenuto successivamente Segretario Generale della NATO.
La dichiarazione di Anders Breivik, preceduta dal saluto romano a braccio teso verso il pubblico e i famigliari dei ragazzi uccisi, si è poi conclusa con «Chiedo di essere assolto perché ho agito esclusivamente in difesa del mio paese». Il tutto è visibile in un film che consiglio vivamente, disponibile su Netflix, che titola 22 luglio, scritto e diretto da Paul Greengrass e tratto dal libro Uno di noi – La storia di Anders Breivik di Åsne Seierstad. Un film che è soprattutto una storia di resilienza di una giovane vittima gravemente ferita dall’attentato.
Ora non si vuole qui sostenere che basti ragionare come Breivik per essere un Breivik. Tuttavia – dato che Breivik con le sue parole e la sua azione ha ispirato sanguinose repliche emulative in Polonia, Australia, Stati Uniti d’America e Germania – non si vuole neppure sottovalutare la potenzialità terrificante che certi ragionamenti identitari che sentiamo ogni giorno, possono generare in terreni mentali patologicamente ricettivi.
Se la questione “identità” sul piano personale è cosa importante quando osservata come pratica di consapevolezza e dinamica trasformativa (chi sono io, oggi?), trasferita sul piano sociale in termini conservativi e avversi alle naturali evoluzioni storiche, è una forzatura artificiale, ideologica, violenta e, appunto, antistorica. Infatti, il tema tanto caro alle destre mondiali (e a Anders Breivik) della sostituzione etnica in corso a causa del lassismo delle sinistre, è, come direbbe Fantozzi “una cagata pazzesca!”. La storia del mondo è quella di una naturale e salutare trasformazione continua. Tutti sappiamo che spesso i piccoli e isolati paesi valligiani hanno tare mentali diffuse dovute alla scarsa diversificazione genetica degli abitanti. Ossia, tanto maggiore è la distanza genetica tra genitori, migliori saranno le qualità della prole.
Se Identità (dal latino idem – medesimo) significa uniformità, conformità, e il suo contrario diversità, differenza si capisce bene che dietro e dentro il termine bandiera delle destre più o meno estreme, c’è molto più di una questione di lana caprina ma una visione del mondo in cui è la paura dell’altro che governa le relazioni. Il classico slogan trumpiano America First salvinianamente declinato fino all’infima potenza tipo Prima Roccasecca è un assurdo impraticabile in questo mondo che è fatto di relazioni dinamiche tra grandi blocchi: USA, Cina, Europa.
In un dialogo nessuno può essere primo, sennò non è dialogo.
Francesco Remotti, grande e saggio antropologo piemontese, la definisce «ossessione identitaria» quella che «sposta inevitabilmente i sistemi sociali verso la chiusura» osservando che «vi è un nesso tra l’emergere dell’ossessione identitaria e i processi di impoverimento culturale che investono il mondo contemporaneo».
Il “noi” identitario è quello che si oppone alle trasformazioni demografiche originate anche dai flussi migratori, vissuti come minacce insopportabili, come portatori di nemici da distruggere… mentre, secondo Remotti «Occorre invece riconoscere la logica “meticcia” in cui l’identità del “noi” si forma: un “noi” in cui gli altri da sempre coesistono è per forza di cose un “noi” aperto, relazionale».
Con la stessa età di Remotti (81 anni) Alain de Benoist, scrittore, filosofo e giornalista francese, fondatore del movimento culturale denominato Nouvelle Droite (Nuova Destra), sostiene che l’identità di una persona o di un popolo, è costituita dalla sua cultura e dalla sua storia. Non certo dal luogo della sua nascita o dalla sua razza che pure ha poco significato, per esempio «uno è ebreo se è nato da una madre ebrea, non lo è se è nato da un padre ebreo e da una madre non ebrea…».
L’anziano e originale filosofo ci illumina così: «La definizione della ‘nostrità’ non è esclusiva rispetto agli altri. Non porta né alla xenofobia né al rifiuto di riconoscere i valori e la grandezza delle altre culture del mondo, al contrario (su alcuni punti dovremmo anche prendere esempio).
Nei nostri rapporti con gli altri, dobbiamo capire che ogni identità è dialogica: non si ha identità se si è soli».
Trailer del film 22 luglio: https://www.youtube.com/watch?v=3tDssbWRnO0