Nemica della Meloni? La libertà di critica
Molti nemici molto onore, è una frase pronunciata da Mussolini negli Anni trenta, che poi campeggiava insieme a tante altre sui manifesti e sui muri dell’Italia fascista.
Quella frase non fu coniata dal duce ma da Georg von Frundsberg, capo dei Lanzichenecchi che parteciparono al sacco di Roma nel 1527, il quale a sua volta l’avrebbe forse raccolta da qualche storico condottiero dell’ antica Roma.
È tornata nell’Italia del XXI secolo in un post su Facebook di Matteo Salvini, nel 2018, quando era ministro degli Interni. Era la risposta alle critiche di alcuni giornali. Però la frase non era corretta anche se il significato non cambiava: il leader della Lega aveva scritto “tanti nemici tanto onore”.
Tra i rappresentanti dell’attuale coalizione di governo quelle quattro parole non sono più ricomparse, ma i “nemici” sì, armati soltanto di parole, di critiche, di giudizi, tutti leciti in una democrazia.
Alla nostra premier non piacciono e lo ha dimostrato con uno show al raduno di Atreju nel Circo Massimo, di fronte a 50 mila fans e alla presenza di rappresentanti del sovranismo internazionale, tra i quali era ospite d’onore il presidente argentino Javier Milei, quello della motosega, tanto per intenderci.
Durante il suo intervento incomprensibilmente urlato, rabbioso, carico di livore, Meloni se l’è presa con i media che l’attaccano in continuazione: «Mi coprono d’insulti e devo stare zitta?», aveva detto dopo aver elencato i nomi dei suoi peggiori nemici come la Schlein, Landini, Saviano, i magistrati comunisti e anche Prodi che si era permesso di attribuirle un comportamento remissivo verso gli Stati Uniti.
Come si può mancare di rispetto a una persona come Prodi, per due volte presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione europea, un uomo gentile e mai fazioso? Se si è arrivati a questo punto significa che siamo nell’anticamera di un fenomeno inquietante, da non sottovalutare.
La stampa internazionale la considera come la personalità politica più potente d’Europa; «una donna coraggiosa», ha detto Milei; «è fantastica, una leader», è stato l’elogio di Trump.
Eppure nonostante questa glorificazione la Meloni si è ridotta a inveire con toni da mercato ortofrutticolo contro coloro che in nome della Costituzione esercitano il loro diritto di critica senza mai lanciare offese, come risulta.
Probabilmente sul palco di Atreju ha dimenticato di abitare a Palazzo Chigi tornando ad essere una comune residente del quartiere popolare della Garbatella con i suoi momenti di rabbia. In questo modo sciupa la sua credibilità internazionale in un inutile battibecco da borgata con i suoi avversari.
Un primo ministro non lo dovrebbe fare; non dovrebbe mettere alla berlina persone che l’hanno solo criticata, mai offesa. Andreotti, per esempio rispondeva alle critiche con ironia, anche divertente.
Probabilmente l’ira della Meloni non è autentica, ma farebbe parte di un disegno politico studiato per mantenere il consenso degli elettori. Anche Salvini usa molto l’aggressione verbale che però è più rozza e banale.
Certo chi ha seguito per decenni la politica italiana, trova indegna questa condotta fatta di aggressioni, per ora verbali, contro chi la pensa diversamente.
Sono queste le basi del fascismo, chiamiamolo oggi sovranismo o populismo. Prima della marcia su Roma Mussolini all’inizio della sua ascesa attaccò verbalmente le sinistre, poi passò alle maniere forti appoggiato dalle forze dell’ordine, dai governi liberal democratici e dal re.
Ma allora l’Italia era molto diversa da quella di oggi: era appena uscita impoverita da una terribile guerra; il mondo operaio era in rivolta e la borghesia temeva il bolscevismo nascente.
Ma tutto può accadere, pur con un altro scenario, come è avvenuto a partire dal dopoguerra sino alla catena di attentati neofascisti da Piazza Fontana in poi.
Nel primo periodo il confronto tra i leader delle forze politiche era corretto: i democristiani al potere si comportavano da gentlemen, ma era solo ipocrisia.
La repressione dei movimenti operai del Nord e i braccianti del Sud era feroce; polizia e carabinieri del ministro Scelba soffocavano le manifestazioni con innumerevoli arresti ingiustificati e con l’uso delle armi: si contano a centinaia gli uccisi “per errore” tra il silenzio delle autorità di governo e del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Cito tra i tanti il caso di Modena dove nel 1950 le Fonderie riunite licenziarono 500 operai. La Cgil proclamò lo sciopero cittadino e la prefettura vietò ogni manifestazione. Alla delegazione del sindacato che protestava, il prefetto rispose “vi stermineremo tutti”.
Nel frattempo nella città era arrivato un “esercito” di 1500 tra poliziotti e carabinieri appoggiati da mitragliatrici e autoblindo. La mattina del 9 gennaio una decina di operai si era fermata davanti ai cancelli della fabbrica. I carabinieri spararono dai tetti e uccisero tre persone, nel resto della città ci fu la caccia all’operaio.
I morti furono sei e 240 i feriti. Gli arrestati 34 con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa e attentato alle libere istituzioni.
A quei tempi i fascisti comandavano ancora coperti dalla Democrazia Cristiana e dalla Chiesa. Il fascismo in Italia non è mai scomparso, si è rintanato qualche volta per poi ricomparire mascherato.