
Agrigento capitale della cultura. Ma se lo merita?
Agrigento proclamata capitale italiana della cultura per l’anno 2025. La propose nel ‘24, prima di diventare “Ex”, il ministro Sangiuliano, il quale dopo l’approvazione dichiarò: «Essere la capitale per un anno consente di accendere i riflettori sulle realtà territoriali, una grande ricchezza dell’Italia, dovuta alla sua storia…».
I suoi monumenti risalenti alla città greca di greca di Akragas, (500 a.C.), estesi lungo la Valle dei Templi che nel 1997 l’Unesco inserì tra i patrimoni dell’umanità.
Una splendida descrizione di quel sito la fece Goethe nel suo Viaggio in Italia:«Mai visto in tutta la mia vita uno splendore di primavera come stamattina al levar del sole… Dalla finestra vediamo il vasto e dolce pendio dell’antica città tutto a giardini e vigneti, sotto il folto verde s’indovina appena qualche traccia dei grandi e popolosi quartieri della città di un tempo. Soltanto all’estremità meridionale di questo pendio verdeggiante e fiorito s’alza il tempio della Concordia, a oriente i pochi resti del Tempio di Giunone; ma dall’alto l’occhio non scorge le rovine di altri templi… corre invece a sud verso il mare».
Confrontando quelle belle parole con la Agrigento di oggi mi viene da chiedere se la città con i suoi amministratori meriti l’investitura di capitale della cultura.
Ho qualche dubbio: il primo, che rasenta il comico, si riferisce al giorno ufficiale della proclamazione svoltasi alla presenza del Presidente Mattarella. Gli organizzatori della cerimonia avevano “dimenticato” che la strada da dove doveva passare l’auto presidenziale con le altre autorità era piena di buche.
Provvidero di corsa il giorno prima riasfaltandola e coprendo inavvertitamente tutti i tombini che poi hanno dovuto cercare col metal detector. E così su quell’ errore ridicolo e grossolano “si sono accesi i riflettori” (Sangiuliano dixit) sulle vere “realtà territoriali” della moderna Agrigento.
Il secondo dubbio, ma drammatico, risale agli Anni sessanta del’900, quando la città divenne “capitale” del sacco edilizio, solo seconda a Palermo.
In quel periodo, caratterizzato da un forte boom edilizio, il territorio fu lottizzato ed edificato pur mancandovi un piano regolatore. Gran parte dei nuovi edifici erano privi di licenza; sorsero casermoni alti molti metri più di quanto previsto dal progetto, che occuparono parte della zona archeologica dichiarata dai geologi franosa e occultarono il bellissimo panorama della Valle dei Templi, proprio quello descritto da Goethe.
Quella speculazione edilizia venne duramente criticata dalla stampa di sinistra e da giornali impegnati come l’Espresso e Panorama, con interventi di Giulio Argan, Cesare Brandi, Antonio Cederna, e tanti altri tra architetti e archeologi.
Ma il potere democristiano- mafioso della città e della regione, con la complicità del governo di Roma, rimase sordo alle proteste.

Difatti alle sette del mattino del 19 luglio del ’66, una enorme frana si portò via quasi tutti quegli edifici costruiti poco tempo prima. Non ci furono vittime perché gli abitanti vennero avvertiti in tempo, ma ci furono ottomila sfollati.
Scoppiò uno scandalo di grandi proporzioni. Ma nessuno pagò per questo: i quattro sindaci DC succedutisi durante il sacco edilizio vennero processati e riprocessati sino a quando i loro reati caddero in prescrizione.
Ma per lungo tempo la frana fu un incubo per la catena di presidenti della regione, di assessori, di deputati, sottosegretari, ministri e loro compari, di alti funzionari dello Stato, magistrati agrigentini. Se la cavarono.
In un articolo su L’Unità il deputato del Pci Mario Alicata, fece i nomi di costoro a partire dal giudice Aurelio Di Giovanni, proprietario di un appartamento nella zona franosa e di un altro in un palazzo costruito senza licenza; Giovanni La Manna procuratore della Repubblica; Guido Bellanca presidente della Corte d’Assise; Raimondo Mormino presidente del Tribunale civile; l’ex questore della città, tutti con case in quella zona. Nessuno di questi ebbe a che fare con la Giustizia, quella vera.
Su quello scandalo non ci furono manifestazioni di protesta né ad Agrigento, né in Sicilia. I siciliani continuarono a votare per la Dc sino alla fine del partito con “Mani pulite”. E oggi la destra continua a governare nell’isola.
La maggioranza dei siciliani non cambia mai; è cambiata la Magistratura dell’isola diventata più aggressiva verso lo strapotere della combinazione mafia – politica. Ma molti tra giudici e procuratori sono stati assassinati, da Rocco Chinnici a Rosario Levatino; da Falcone a Borsellino. E poi tanti giornalisti, sindacalisti, membri delle forze dell’ordine compreso il generale Dalla Chiesa; uomini politici come Piersanti Mattarella e Pio La Torre, deputato del PCI.
I membri dei vari governi sono stati sempre solerti nel partecipare alle esequie delle vittime, ma hanno fatto poco e quasi niente per sradicare il malaffare e la delinquenza mafiosa. Niente per rompere i legami tra la mafia e gli amici che frequentano il Parlamento.
È certamente un caso, ma alcuni traghetti che collegano le due sponde dello Stretto, appartengono alla società “Caronte “, il nome citato da Dante del traghettatore che trasportava le anime all’inferno. Forse quella destinazione oggi si chiama Sicilia?
Comunque l’isola di Caronte rimane sempre bella: basta non frequentare i quartieri moderni delle città, avere pazienza e sangue freddo nel percorrere le strade e le autostrade dissestate, non viaggiare in treno se si ha fretta e star bene in salute. Vedrete che il ponte sullo Stretto, “made in Salvini”, sistemerà tutto (?).