Ci vediamo domani
“Ci vediamo domani” è come un pezzone che la radio passa così tante volte, da desensibilizzarti al suo fascino.
Lo cantiamo tutti, nei più svariati toni di voce, con qualsiasi timbro.
È nei nostri quotidiani, ma la sua grandezza, sta nel saperlo ascoltare, saperlo cogliere come urlato, nel brusio di sottofondo del mondo.
Bisogna farci caso.
Si deve farci caso.
La frase “ci vediamo domani” è la prima vera dichiarazione di presenza, nella vita di un individuo.
Si regala una certezza, nonostante tutta l’imprevedibilità del giorno seguente.
È una forma di amore, e anche un regalo.
Ed è uno di quei regali per niente scontati.
Pensate alla potenza che assume, insieme ad una buonanotte.
Ovvio, se pensate alla medesima frase, e la visualizzate pronunciata da uno di Equitalia che è venuto a farvi il mazzo, potreste non apprezzarne tutta la sua sfavillante preziosità.
Ma sapete a cosa mi riferisco.
A che tipo di “ci vediamo domani” alludo.
A quello sulla bocca dei genitori per i figli, a quello detto guardandoti negli occhi da un amico, un compagno, una “presenza di valore”, un affine.
Ma anche quello del giornalaio, del barista o del fruttivendolo, perché sono “comparse” costanti nei nostri quotidiani… e in questo senso, diventano emblemi di una vita vissuta.
È un rito che rassicura.
Penso che faccia veramente freddo, quando si spegne un “ci vediamo domani”.
Penso che ci sia qualcosa che diventa grigio, che si congela.
Che manca.
Può essere per colpa di un viaggio, di una nuova vita, di un passaggio altrove.
Può spengersi per un motivo stupido, o scomparire di botto, per lasciarci di stucco, persi, con il più irreparabile dei silenzi.
Io sono una che dice “ci vediamo domani”, anche ai cani e gatti che vengono in ambulatorio.
Se il giorno dopo devono tornare per fare delle terapie, li saluto come “cristiani”, come diceva mia nonna.
Coi cani, quando glielo dico, mi illudo sempre di intuire dalla loro espressione, la proporzione emotiva che c’è tra la triste rassegnazione e la gioia scodinzolante.
La gioia, è guarigione.
Al contempo, dal mio tono, dò modo al paziente di intuire se è stato veramente un piacere curarlo.
Non fraintendetemi, è sempre bello “curare”, ma quando i pazienti non sono troppo collaborativi, scontrosi, mordaci, ingestibili, il mio “ci vediamo domani”, lo dico un po’ più arcigna e provocatoria… della serie: “cedi e fatti aiutare”.
E ditemi voi, se anche un “ci vediamo domani” di questo tipo, non debba esser apprezzato.
Anche fra cristiani.
Pensate alla fine del mondo.
I ci vediamo domani, tutti risucchiati in un enorme buco nero.
E ora?
Quando penso a questo, mi immagino un enorme buio stellato, e la magnifica canzone di Aretha Franklin, “Ain’t No Way”, in diffusione astrale, interplanetaria, infinita.
È bellissimo, ma è anche triste, straziante.
Non c’è modo, dice Aretha.
Non c’è più modo di pronunciare quella scontata ma incredibile frase.
Datemi retta, prestate orecchio alla musica che suona in quella manciatina di parole.
Ascoltate bene quelli che, inesorabilmente, donano quell’ impercettibile smorfia alla vostra bocca, che cerca di trattenere il sorriso per poi lasciarlo andare libero.
Dosate con cura, il ricordo di chi ve lo diceva e non può più dirvelo… perché Aretha è in agguato, e colpisce duro e alle gambe se esagerate.
Regalatelo, a chi volete rassicurare.
Ascoltatelo, per sentirvi vivi e mai soli.
Aretha Franklin – Ain’t No Way [1968]: https://www.youtube.com/watch?v=PB2Mu2zBzjw
Copertina: Foto di Jupi Lu da Pixabay