Giuliano Montaldo, il regista che ha saputo raccontare l’impegno civile e il potere ingiusto
Così ricominciai daccapo, andando alla ricerca di storie in cui potevo esprimere la mia necessità di combattere l’ingiustizia e l’intolleranza, che sono poi le madri di tutte le catastrofi umane. Questa frase ci introduce Giuliano Montaldo, il regista scomparso il 6 settembre scorso a 93 anni. La si trova in una intervista sulla sua breve esperienza lavorativa negli Usa (girò due film con attori di rilievo), breve perché i produttori gli proponevano solo western.
Montaldo aveva quell’urgenza dentro, combattere ingiustizia e intolleranza, che gli veniva anche dalla sua esperienza: a 14 anni fu vittima di un rastrellamento nazifascista e fu deportato sul fronte Sud. Riuscì a scappare e a tornare nella sua Genova unendosi alla Resistenza entrando in un Gap (Gruppo Azione Patriottica).
E L’incontro col cinema? Avvenne a 21 anni e fu quasi casuale. Carlo Lizzani stava girando Achtung! Banditi e Montaldo ebbe una parte nel film. Continuò a recitare in diverse pellicole, soprattutto prima di passare dietro la macchina da presa, ma qualche parte la fece anche dopo con Margarethe von Trotta, Nanni Moretti, Carlo Verdone fino al film di Francesco Bruni, Tutto quello che vuoi (2018) che gli valse il David di Donatello.
La prima regia fu a 31 anni col film Tiro al piccione, tratto dal romanzo autobiografico di Giose Rimaldelli. Racconta la storia di un giovane che dopo l’otto settembre aderisce alla repubblica di Salò. La Resistenza vista dalla parte sbagliata, come scrisse Rimaldelli presentando il suo manoscritto a Cesare Pavese. Il film fu aspramente criticato da destra e da sinistra, l’argomento era troppo scottante. A questo insuccesso è seguito Una bella grinta, un film su un arrampicatore sociale negli anni del boom economico, interpretato da Renato Salvadori. Anche quest’opera fu incompresa.
Dopo due film polizieschi americani (Ad ogni costo e Gli intoccabili, il primo con Edward G. Robinson il secondo con John Cassavetes) può, ormai popolare, lavorare alla trilogia del potere realizzando in quattro anni Got mit uns (Dio lo vuole), un film contro il militarismo; Sacco e Vanzetti e, infine, Giordano Bruno. Sacco e Vanzetti, racconta la storia di un episodio di malagiustizia costato la vita ai due anarchici italiani migrati negli Stati Uniti, condannati sebbene innocenti, alla sedia elettrica.
Il film consacra Montaldo al pubblico internazionale anche grazie all’interpretazione di Gian Maria Volonté e Renato Cucciolla, il quale ottenne la Palma d’oro a Cannes. A questo proposito a chi gli chiedeva come mai non fosse stato premiato Volonté, Montaldo, sosteneva: “Forse perché sapevano che se ne fregava dei premi, una volta ne lasciò uno alla stazione”. Il regista riteneva questo film quasi perfetto grazie anche alle musiche di Ennio Morricone e alla canzone interpretata da Joan Baez. Il successo internazionale del film ha permesso di realizzare Giordano Bruno, magnificamente interpretato sempre da Gian Maria Volonté. L’impegno civile e cinematografico del regista genovese è continuato con L’Agnese va a morire tratto dal libro di Renata Viganò. Film che intercetta le prime istanze femministe e, per la prima volta, mostra sul grande schermo la Resistenza dal punto di vista delle donne. Nel 1982 il regista si lancia nell’avventura del Marco Polo, il primo colossal della Rai realizzato con la Cina. L’opera in otto episodi è girata in diversi Paesi ed è stata trasmessa in 46 nazioni.
Negli anni ’80 la sua filmografia si arricchisce con Gli occhiali d’oro tratto dal racconto di Giorgio Bassani, seguono Tempo di uccidere dal romanzo di Ennio Flaiano. Di questo film Montaldo ha dichiarato con onestà e ironia: “È il mio più grande rimpianto. Amavo follemente il romanzo di Ennio Flaiano, ma sbagliammo tutto, a cominciare dalle location… Unica consolazione, per fortuna che Flaiano non ha visto il film, quando uscì nelle sale (nel 1989) era morto da quasi vent’anni”. Le ultime opere da regista sono I demoni di San Pietroburgo in cui Dostoevskij si confronta con le idee rivoluzionarie professate in gioventù e L’industriale con Pierfrancesco Favino che ricorda un po’ il personaggio dell’arrampicatore sociale di Una bella grinta, ed è il rappresentante perfetto di un’Italia dove il denaro è l’unico dio. Di Giuliano Montaldo non si deve dimenticare l’impegno istituzionale con Rai Cinema di cui è stato il primo presidente dal 1999 al 2004, ruolo che ha svolto con passione e una dedizione unica.
Infine, si ha l’impressione che Montaldo sia stato un autore sottovalutato, eppure la sua capacità di raccontare vicende dimenticate o trascurate con un linguaggio accessibile a tutti, con estremo rispetto per il pubblico e cura per gli eventi narrati, piccoli o grandi che fossero, ne fanno un maestro.
In chiusura riportiamo una citazione di Tutto quello che vuoi, un film di Francesco Bruni in cui Montaldo è un poeta affetto da Alzheimer accompagnato nelle sue passeggiate da un ragazzo coatto e nullafacente. Quello del poeta Giorgio Gherarducci è un ruolo che calza a pennello a Giuliano Montaldo. Il poeta conquista il ragazzo con la sua signorilità e il rispetto per gli altri, tutti e addirittura con i versi, perché Le poesie si scrivono quando non si sa dove mettere l’amore.
Copertina: Gian Maria Volontè e Renato Cucciolla nel film Sacco e Vanzetti