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Il “corpo del reato” di Shirin, artista iraniana

Tempo di lettura: 3 minuti

Body of Evidence (Il corpo del reato) è il titolo della mostra dell’artista iraniana Shirin Neshat (1957) che sarà al Pac – Padiglione di arte contemporanea di Milano fino all’8 giugno prossimo.

Neshat si è trasferita negli Stati Uniti per studiare arte e lì è rimasta in seguito alla rivoluzione khomeinista e al regime teocratico da essa istaurato. Il suo era un autoesilio interrotto solo per un viaggio dopo la morte della guida suprema.

Profondamente colpita dai cambiamenti seguiti alla presa del potere degli ayatollah, l’artista ha cominciato a riflettere sul ruolo della donna nella società islamica mettendolo a confronto con il femminismo incontrato nella vita americana. Nei suoi video e fotografie, i mezzi espressivi scelti da Neshat, il corpo, specialmente femminile, diventa un termometro per denunciare le ingerenze del potere e per misurare il grado di libertà della società.

Al Pac più di 200 immagini e numerosi video ripercorrono la sua carriera dagli anni ’90. Ciò che colpisce maggiormente il pubblico dell’artista, nota in tutto il mondo per il suo impegno sociale attraverso l’arte, è la visione particolare che le deriva sia dalla cultura iraniana sia da quella statunitense. Le sue opere, anche quando collocate in un luogo specifico, sembrano spesso andare oltre la storia del luogo per cercare quei tratti comuni a ogni essere umano, specie i suoi sogni e le sue paure.

Ci sono alcuni video dedicati all’Iran (Fervor, Turbolent e Rapture) in cui uomini e donne sono rappresentati in narrazioni separate e parallele come due canali, a volte lo schermo è diviso in due, a volte due schermi mostrano la stessa storia da due punti di vista differenti.

In Turbolent sono rappresentati due cantanti: un uomo che si esibisce in un teatro davanti a una platea gremita e applaudente e una donna che, col divieto di canto imposto dalla rivoluzione, poiché la voce femminile è considerata erotica, si esibisce in un teatro vuoto. Lui intona canti tradizionali, lei improvvisa, lui è inquadrato con una macchina fissa, lei con una mobile che le ruota intorno. E quando lui, finito il suo concerto, sente da lontano la voce di lei resta ipnotizzato.

In Lands of dreams, ambientato nel New Mexico, un’attrice (alter ego dell’artista) va a bussare a diverse porte. Presentandosi come studentessa di arte visive chiede di poter fare dei ritratti e di conoscere il sogno più recente delle persone fotografate. In realtà, come rivela un video parallelo, è incaricata da una organizzazione segreta di raccogliere i sogni. Nel video si rilevano similitudini presenti e nella cultura americana e in quella iraniana come l’orrore per la morte e l’abbandono.

The Fury racconta le terribili esperienze delle donne iraniane imprigionate e vittime di torture e abusi sessuali. Il video racconta che, una volta libere, non riescono ad affrancarsi emotivamente dalla brutalità subita: la protagonista, ex carcerata iraniana, benché riparata negli Usa è sempre prigioniera di un incubo che le ripropone le violenze subite anche in contesti diversi.

Si tratta di una forte denuncia della violenza che le detenute iraniane subiscono dalla polizia e dai carcerieri. Sul loro corpo si combatte la lotta per il potere e la repressione del patriarcato.

Ai video come già detto si affiancano fotografie sia di donne (Women of Allah) sia di uomini (The book of King). Le prime sono tra le opere più note di Neshat, sono donne velate il cui corpo è negato dal chador, solo nelle parti visibili (il volto, le mani e talvolta i piedi) sono stati trascritti in farsi brani di scrittrici iraniane. I segni calligrafici, tracciati sulle fotografie appaiono come ricami o tatuaggi e danno voce alle donne rinchiuse nelle loro vesti. Talvolta le donne ritratte hanno un’arma, Neshat vuole così ricordare i sentimenti contrastanti promossi dalla rivoluzione islamica che fa convivere amore, devozione e sacrificio con odio, crudeltà e violenza.

Anche sui corpi degli uomini fotografati sono riprodotti poemi epici come Il Libro dei re e di scrittori contemporanei prigionieri in Iran.

L’ultima opera che ricordiamo è Soliloquy, protagonista è la stessa Shirin Neshat. Ricorrendo sempre alla tecnica di due canali paralleli esplora la sua condizione di esule e riflette sulla sua identità. Si sente sempre in bilico tra due mondi, nelle riprese affianca una città occidentale, Albany, e una alle porte di un deserto al confine tra Turchia e Iran. Da un canale l’artista guarda sé stessa protagonista dell’altro canale/luogo, in uno si sente esclusa mentre nell’altro prova dolore.

Body of Evidence è una mostra potente in cui si evidenzia il convincimento di Neshat che «Oggi più che mai abbiamo bisogno di artisti, di cultura che ci aiuti, che ci ispiri, che ci provochi, che ci parli e confronti le forze al potere. Non possiamo restare neutrali».

Tra i premi ricevuti da Shirin Neshat: Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, Leone d’Argento per la miglior regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017. L’artista ha anche curato la direzione artistica l’Aida di Verdi diretta da Riccardo Muti al Festival di Salisburgo nel 2017 e 2022.

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