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Il romanzo di un’epoca e la fuga dalla Germania

Tempo di lettura: 3 minuti

“Non sono un eroe. Ho paura dei ratti e dei serpenti. Non attraverso volentieri un bosco buio. Non amo essere maltrattato. Rumori di guerra e apocalissi, nonché tutte le vicende storiche che si svolgono con un fragore, mi suscitano antipatia. Io amo i libri e le opere d’arte, la buona musica e i vini pregiati. Mi piace mangiar bene. Apprezzo la vita comoda. In circostanze normali sarei diventato un membro utile della società.” Così inizia l’opera di Hans Sahl I pochi e i molti. Romanzo di un’epoca (Sellerio).

È la storia di Georg Kobbe (e anche dello stesso Sahl) che va dalla caduta della Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo e la fine della Seconda guerra mondiale. Kobbe è un ebreo tedesco, assimilato ma sempre ebreo che braccato riesce a scappare, rifugiarsi prima a Praga, poi in Francia e quindi, dopo una avventurosa fuga da un campo di concentramento francese, a salire su una nave e raggiungere New York, la terra promessa.

Con l’ascesa di Hitler, Kobbe si sente, forse per la prima volta ebreo, lui che era cresciuto in una famiglia più vicina all’illuminismo che alla Torah. Lui che era cresciuto nel culto della civiltà e della cultura tedesca, passando le serate ascoltando Wagner e la madre suonare i Lieder di Schubert. Lui che, come molti, aveva “ornato le proprie pareti di immagini di madonne gotiche e i propri scaffali di edizioni di pregio di classici tedeschi” e cheora, sotto la pressione di persecuzioni, ritrovava nella sua memoria il ricordo di antichi canti e testi di cui non ricordava le parole e con essi riscopre la sua altra identità.

Georg Kobbe è un poeta, un intellettuale, vive nella terra di Heine e si ripete continuamente che il diavolo non è così brutto come lo si dipinge, ma “l’uomo con l’impermeabile”, così chiama Hitler, sembra ogni giorno smentire questa affermazione. Il suo movimento non è un fuoco di paglia.

Non resta che andarsene, una decisione difficile per molti che si illudevano e, col tempo, difficile da realizzare. Andarsene “Non c’era nulla di eroico in tutto quello. Non era un addio lungamente preparato alla terra della mia infanzia. Avevo solo da prendere il cappello e uscire di casa senza sapere quando sarei tornato. Forse tra due ore, o tra due anni, o forse mai: l’essenziale era riuscire a lasciare il proprio alloggio senza dar nell’occhio, infilarsi su un treno e passare la frontiera”. Eppure molti restano, non tutti sono conniventi col regime, non un intero popolo se ne può andare, ma di fatto quelli che lo fanno e si oppongono sono pochi.

Praga prima, poi la Parigi dove Kobbe patisce la fame, lui, che era benestante, senza un soldo, sostiene che “è terribile fare la fame a Parigi; più che in qualunque altra città”. Seguono i giorni sull’internamento forzato degli ebrei tedeschi, la fuga a piedi verso sud, verso Marsiglia e finalmente una nave per gli Usa.

A New York Kobbe comprende che “il suo esilio non avrebbe mai avuto fine… era diventato uno stato mentale, una forma di vita”. Anche gli altri esuli condividevano la sua stessa consapevolezza, non facevano che parlare del passato.La fuga dalla Germania era stata così repentina, il distacco brutale e non aveva permesso a quasi nessuno di riflettere sulle implicazioni che la loro decisione avrebbe comportato. Lo ricorda Luise, la ballerina, di essersi comportata “come se partissi per una gita di fine settimana. Ora non posso tornare indietro”.

Infine, tra i numerosi personaggi del romanzo molti sono modellati su persone reali. Luise, appena accennata, è ispirata alla danzatrice Lotte Goslar.
Dietro il poeta Jochen Scharf c’è Bertolt Brecht. Sotto le vesti di un uomo piccolo dalla testa grigia si nasconde Max Reinhardt, il grande regista teatrale austriaco.

Il nome di Ignazio Morton, invece, si ispira allo scrittoreIgnazio Silone. Si accenna anche a Varian Fry che con l’Emergency Rescue Committee salvò più di 2mila europei tra intellettuali, artisti, esuli antinazisti, ebrei, tra cui lo stesso Sahl, facendoli arrivare negli Usa.

Infine, c’è anche un omaggio a Joseph Roth che non viene mai nominato, ma si intravvede: “Nel piccolo café con le sedie rosse in vimini, siede con i suoi amici il grande scrittore e si ammazza di alcol. Ogni tanto mi arriva la sua risata roca che rimbomba dalla strada buia… Mi suona come l’eco di un continente che muore… là sotto siede l’uomo che scrive la miglior prosa in lingua tedesca dai tempi di Heine, e ride e beve e tossisce fino ad ammazzarsi”.

Il romanzo, l’unico di Sahl che è stato corrispondente, traduttore e soprattutto poeta, alterna la narrazione in prima persona nelle parti di diari, e lettere alla terza persona nei ricordi, o nella cronaca degli avvenimenti passati o presenti.

Sahl rientrò in Germania negli anni ’80, poco prima del crollo del muro di Berlino, scelse di vivere a Tubinga, la città di Hölderling e del suo nuovo legame con il Paese scrisse: “Quando la notte penso alla Germania/ penso a Heine, Novalis, Bach/ non penso più a Buchenwald”.
Eccellente la traduzione di Enrico Arosio che ha curato anche la postfazione.

Copertina: Cittadini tedeschi a lezione di teoria della razza (Enciclopedia dell’Olocausto)

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