L’uomo del trattore
Steinbeck scrive Furore nel 1938. Il libro è un caleidoscopico affresco della Grande Depressione americana e dei suoi effetti devastanti. Ciononostante rileggendolo oggi, in un mondo di migranti nel quale quasi ogni cosa, bella o brutta che sia, è mediata e artificiale, non si può fare a meno di notare la sua grande attualità.
Credo che la ragione della sua forza e del suo intramontabile successo, oltre alle eccezionali capacità espressive del suo autore, sia questa.
Non si tratta di rileggerlo decontestualizzandolo, tutt’altro: Steinbeck ci parla di un mondo che non solo non è cambiato ma ha radicalizzato i propri errori portandoli alle estreme conseguenze.
Perciò si può leggere pensando a lui, a Steinbeck e al suo tempo, ma anche a noi e a quello che siamo.
Nel bene e nel male.
“Le case rimasero vuote nella campagna, e la campagna fu vuota per questo.
Solo i capanni dei trattori erano vivi, i capanni di lamiera ondulata, argentei e luccicanti; ed erano vivi di metallo e benzina e olio, con i vomeri degli aratri splendenti.
I trattori avevano i fari accesi, perché un trattore non conosce né giorno né notte, e i vomeri rivoltano la terra nelle tenebre e scintillano nella luce del giorno. E quando un cavallo ha finito il suo lavoro e torna nella stalla, c’è ancora vita e vigore in lui, c’è un respiro e un calore, e gli zoccoli strusciano sulla paglia, e le ganasce triturano il fieno, e le orecchie e gli occhi sono vivi. Nella stalla c’è un calore di vita, c’è l’energia e l’odore della vita. Ma quando il motore di un trattore si ferma, è morto come il metallo da cui proviene. Il calore lo abbandona come il calore della vita abbandona un cadavere.
Poi le porte di lamiera ondulata si chiudono e l’uomo del trattore va a casa in macchina, anche venti miglia da lì, e non dovrà tornare per settimane o perfino mesi, perché il trattore è una cosa morta. E tutto questo è facile ed efficiente. Così facile che l’incanto scompare dal lavoro, così efficiente che l’incanto scompare dalla terra e dal lavorarla, e con l’incanto scompare anche la comprensione profonda e il legame.
E nell’uomo del trattore cresce il disprezzo che alligna solo nell’estraneo, che di comprensione ne ha poca e di legami nessuno. Perché i nitrati non sono la terra, né sono terra i fosfati e la fibra del cotone. Il carbonio non è un uomo, né lo sono il sale, l’acqua o il calcio. L’uomo è tutto questo insieme, ma è molto di più, molto di più; e la terra è enormemente di più della sua analisi.
Quell’uomo che è più della sua struttura chimica, che cammina sulla terra, che fa deviare la punta dell’aratro per evitare una pietra, che preme sulle stegole per scavalcare un rialzo, che s’inginocchia tra i solchi per consumare il pasto; quell’uomo che è più dei suoi elementi, conosce la terra che è più della sua analisi. Ma l’uomo-macchina, che guida un trattore morto su una terra che non conosce né ama, capisce solo la chimica; e disprezza la terra e insieme se stesso. Quando le porte di lamiera ondulata sono chiuse, lui va a casa, e la sua casa non è la terra.”
(John Steinbeck, Furore, Bompiani, Firenze, 2013)