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Nella carne

Tempo di lettura: 3 minuti

Le risposte di István alle domande degli altri sono sempre laconiche. Una serie di “Okay” e di “Non so” e di “È normale” messi in colonna.

Ma anche il testo, scritto da David Szalay in terza persona, è composto di frasi brevi, al massimo di due o tre righe tipografiche, quasi accordandosi allo scarno eloquio del protagonista.

Ma è okay, davvero, funziona tutto molto bene. Nella carne, titolo originale Flesh, copyright del 2025, traduzione di Anna Rusconi, porta senza cerimonie e in modo brusco il lettore nella vita di István, ragazzino senza padre nella natia Ungheria, poi chiuso in riformatorio e soldato per la guerra del Golfo, poi a Londra come body guard e autista di vip, poi… non “spoilero” niente, voi continuate a leggere, non è difficile, è molto difficile invece lasciare giù il libro dopo che lo si è aperto.

Comunque. L’efficacia di Nella Carne di David Szalay si deve al fatto che è costruito formalmente sul POV – “punto di vista” poche volte disatteso a favore di altri personaggi – di István.

Pagina dopo pagina il testo diventa lo specchio buio di quest’uomo chiuso in se stesso, di un anti eroe se non scostante molto poco simpatico, uno che cerca di non perdere l’equilibrio, o la sua idea di misura, mentre trascorre la vita in luoghi e ambienti che non sono mai davvero suoi – tutta l’esistenza di István, almeno fino a che non si giunge al termine, sembra dipendere dai rimbalzi del caso (e della carne) più che da un destino, e anche per questo il romanzo, pur essendolo, sembra così salubremente poco letterario… Per esempio: sbarcato a Londra, in seguito a una serie di circostanze, István si trova a essere straordinariamente ricco, elevato da rozzo proletario che era, nel suo apparentemente impassibile atteggiamento, alle consuetudini e ai consumi di un aristocratico inglese.

István è o meglio si presenta quasi sempre come un uomo impassibile. A fronte dei rivolgimenti storici e dei rovesci privati, ma anche dinanzi a quelli che sembrano essere dei successi sentimentali e mondani, prosegue a snocciolare i suoi “Okay” e “Non so” e “È normale”, come Bartleby proferiva il suo fatidico “I would prefer not to”. Intanto lo scrittore David Szalay, promessa mantenuta della narrativa britannica – è nato in Canada da padre ungherese ma è stato da piccolo a Beirut, ha studiato a Oxford e ora vive a Vienna – ci porta (quasi) a comprendere István senza peraltro mai prodursi in spiegazioni. “Quasi”, perché un fondo di enigma rimane e, se non fosse, Nella carne non sarebbe il bel romanzo che è.

Certo: pare che basti “la carne” a indicare che cosa in concreto determina il percorso (un percorso obbligato?) di questo anti eroe, che è in primis un maschio e sembra non sapere dire di no alle donne (e alle catastrofi). Ma è per piccoli passi e anche per ellissi, nel testo e nel vuoto tra un capitolo e l’altro di un libro e di un’esistenza, che lo scrittore ci conduce – il che va tutto a suo merito – a sentirci sodali del solitario e afasico István, spaesati e disillusi come lui, poiché tali siamo in fondo pur trovandoci a distanza siderale dalla sua esperienza umana.

In un animato incontro alla Libreria Feltrinelli di via Sabotino, a Milano, David Szalay ha detto, tra l’altro, che non ha dato uno spessore spiccatamente politico al suo personaggio perché non voleva perdersi in astrazioni. Crede che la grande storia plasmi fisicamente la forma delle nostre vite senza che noi possiamo fare la differenza. Ha raccontato che Flesh è stato da subito il titolo di lavorazione: «Pensavo di cambiarlo, mi sembrava ruvido, volgare, ma il libro parla di questo: che cosa è e come si comporta un corpo nel mondo».

Articolo pubblicato anche su https://www.allonsanfan.it/

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