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Venti racconti pieni di speranza

Tempo di lettura: 3 minuti

Legami è il titolo di 20 racconti di Eskol Nevo sulle relazioni tra genitori e figli, tra amanti, tra amici. Sono legami fragili che si ritrovano in piccoli gesti, quei gesti che affollano la quotidianità e che tra la disperazione, le preoccupazioni, la guerra, rappresentano segni di speranza, di umanità anche nel dolore. Insomma, il resistere della vita quotidiana in un contesto tragico.

L’autore dice che questo è il suo libro “più fisico” dove le sensazioni e le percezioni sono il filo rosso che tiene insieme i racconti. Uscito un anno e mezzo fa in Israele, scritto durante la pandemia, ha suscitato nei lettori reazioni diverse se letto prima o dopo il 7 ottobre.

Dopo quella data e la guerra, Legami è diventato un testo di speranza, capace di conservare tenerezze, di descrivere sentimenti, umanità. D’altronde Nevo è un maestro nel tratteggiare le relazioni affettive.

Ma veniamo ai racconti. I protagonisti, impigliati nelle relazioni, sono colti come in un’istantanea, in un momento in cui sono aperte loro tutte le possibilità e possono operare una scelta rivelatrice.

È come se il momento raccontato fosse quello giusto per fare i conti con sé stessi, una sorta di epifania (v. i racconti Hungry Heart, Meno drammi possibile, Succederà questa notte). Sullo sfondo c’è sempre un paese che divide e che alcuni abbandonano o vorrebbero farlo con mille sensi di colpa. E poi c’è il tempo che ha modificato i rapporti tra i protagonisti, forse smussato gli angoli e reso meno problematiche le loro vecchie incomprensioni.

L’insieme delle storie, disuguali per lunghezza, genera una coralità come se tutti si trovassero nella stessa situazione: fare qualcosa, scegliere chi essere. Anche nella precarietà della vita in Israele ciò che sembra resistere è il desiderio.

Il desiderio, come contraltare al contesto, è presente anche quando i protagonisti sono alla fine della vita come nel primo racconto (Hungry Heart): un padre sa che morirà presto e desidera fare un’esperienza con suo figlio: assistere a un concerto di Bruce Springsteen a Parigi.

In Ogni cosa è fragile, uno dei protagonisti, Yonathan, vorrebbe non ricordare il passato, ma è impossibile (“ti esplode in faccia”). Yonathan spiega all’amico d’infanzia, Dave, che l’ospedale psichiatrico in cui si trova sorge su quel che resta del villaggio di Deir Yassin. Lì nel 1948 furono massacrati più di cento palestinesi e i loro fantasmi bussano alle porte di chi vive lì. Il passato torna nella vita personale e in quella di Israele.

Ne L’erba di Dandan, il ragazzo al centro della storia ha perso un occhio durante un attentato ad Haifa. Nessuno dei suoi amici sapeva fosse lì, perciò come racconta uno di loro non si sono preoccupati per lui, perché: «La prima cosa che fai quando senti che c’è stato un attentato (…) è valutare la probabilità che ci sia coinvolto qualcuno che conosci. È un comportamento così naturale, così automatico, che dura un attimo: un ristorante? A Haifa? Nessuno dei miei amici ci abita o studia a Haifa, non ho famiglia a Haifa; l’ultima volta che ci sono stato era la prima partita in trasferta dell’Hapoel in prima liceo. Conclusione: non c’è di che preoccuparsi, puoi esprimere una generica apprensione per la frequenza crescente degli attentati prima di tornare al tran-tran quotidiano».

Una soluzione? Forse fluire e adattarci come fa l’acqua: «Sii come l’acqua che si fa strada attraverso le fessure, non forzare ma adattati all’oggetto, e troverai un modo per aggirarlo o attraversarlo (…)», scrive Nevo, citando Bruce Lee. L’acqua fa il minimo sforzo e scende, sempre, aggira gli ostacoli e si traccia la via.

E concludiamo con un racconto più lieve di sapore alleniano: in Dopo il tramonto una coppia impoverita lascia la città e va a vivere accanto ai genitori di lui. La vicinanza a genitori dai quali l’uomo si era allontanato volentieri, lo reinfantilizza e arriva a inficiare le sue performance sessuali.

I fallimenti diventano ossessioni: «Non riusciva a smettere di pensarci. Si rasava e ci pensava. Pedalava verso la stazione, ci pensava. Osservava gli uomini sul treno e si chiedeva se qualcun altro aveva lo stesso problema (…) Si ritrovava a pensarci anche durante le lezioni (…) D’improvviso si ritrovò ad alzare la voce come il professore che si era sempre ripromesso di non essere. (…) Godeva del senso di potere che tutto questo gli dava e allo stesso tempo se ne vergognava».

Alla bravura di Eskol Nevo si aggiunge quella della traduttrice Raffaella Scardi. Il libro è edito da Gramma/Feltrinelli.

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