“American graffiti”? CIA, Invasioni e guerre
Luglio è stato un brutto mese per gli americani: hanno rischiato la tragedia con l’attentato a Trump, conclusosi con un lieto fine che potrebbe rendere più sicura per i repubblicani la certezza della vittoria alle elezioni presidenziali (dicono anche con l’aiuto del Padreterno).
Poi l’alta tensione era salita tra i democratici a causa delle condizioni di salute di Biden e del suo iniziale rifiuto di ritirarsi dalla corsa per la nuova presidenza.
Alla fine il presidente passed the torch, ha ritirato la candidatura alle elezioni presidenziali – come ormai chiedeva la maggior parte dei suoi sostenitori – passandola alla sua vice Kamala Harris sulla cui campagna elettorale sono ripiovuti i milioni di dollari di donazioni tolte a Biden quando esitava.
Adesso una buona parte di cittadini americani teme l’elezione di Trump alla presidenza e con ragione, aggiungo, perché ricorda il suo precedente soggiorno alla Casa Bianca; la sua assurda politica interna ed estera; le sparate verbali sulla pandemia e le tante minacce da bullo culminate dopo la sconfitta elettorale del 2019 con l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio del ’20 di migliaia di suoi accoliti.
I commentatori politici europei si chiedono preoccupati cosa ne sarà degli Stati Uniti: con la vittoria di Trump prevedono il declino e un ritorno all’isolazionismo che lascerebbe l’Europa sguarnita militarmente e indebolita nell’economia.
Ma come mai a un ex presidente accusato di aver incitato la folla ad assaltare la sede del Parlamento, è stato consentito di ripresentarsi alle elezioni? La gravità del suo gesto è maggiore del coinvolgimento del presidente Richard Nixon nello scandalo del Watergate per il quale fu costretto a dimettersi nell’agosto del 1974.
«È l’America bellezza!», risponderebbe Humphrey Bogart dall’aldilà. E avrebbe ragione: gli Stati Uniti sono un grande Paese, ma pieno di contraddizioni radicate nella società, nella politica, nei costumi. Queste peculiarità avvolgono anche gli uomini politici, i grandi magnati, i Presidenti che, nel bene e nel male, devono sottostare alla ragion di Stato in nome di un elettorato difficile e… ben armato.
Per esempio il grande F. Delano Roosevelt, eletto alla presidenza per ben quattro volte, nel 1936 si rifiutò di ricevere alla Casa Bianca Jessie Owens, che alle Olimpiadi di Berlino aveva ottenuto quattro medaglie d’oro. Il campione era un nigger, un afro americano come si direbbe oggi, e se il presidente lo avesse ricevuto, gli elettori del Sud si “sarebbero rivoltati”.
E John F. Kennedy, che nel ’62 parlando di fronte al Muro di Berlino esclamò Ich bin ein Berliner (io sono un berlinese) per dimostrare agli abitanti della città di essere dalla loro parte, nel nome della libertà e della democrazia. Eppure ancora in quell’anno negli Stati Uniti – “il Paese più democratico del mondo” – dominava in pieno la segregazione razziale.
Kennedy non era un razzista, ma alla festa del suo insediamento alla Casa Bianca vietò a Frank Sinatra, che aveva organizzato l’evento, di invitare il noto cantante e attore nero Sammy Davis Jr. perché altrimenti si “sarebbe inimicato gli elettori del Sud”.
Il giardino di casa. L’ipocrisia domina sulla democrazia americana, soprattutto in politica estera quando i vari governi pensano di esportarla all’estero. Questa “vocazione” ebbe inizio con la dottrina del presidente James Monroe che nel 1823 lanciò un messaggio ideologico davanti al Congresso, col quale dava l’avvio alla supremazia degli Stati Uniti nel continente americano – in nome della democrazia – definendo l’America latina “il giardino di casa”.
E il giardino di casa divenne territorio di conquista militare ed economica con lo sfruttamento delle piantagioni e delle miniere. Per esempio a Cuba, che nel 1898 apparteneva alla Spagna, l’affondamento della corazzata USA Maine, provocato da un incidente nel porto dell’Avana, venne trasformato dagli americani in un attentato. Fu la scusa per dichiarare la guerra agli spagnoli, vinta con facilità, per prendersi l’isola insieme alle Filippine anch’esse colonia spagnola.
La “democrazia” arrivata a Cuba si trasformò ben presto in una successione di dittature sino ad arrivare a quella feroce di Fulgencio Batista che ebbe inizio alla fine degli anni Trenta del ‘900. Quando l’ambasciatore USA riferì a Roosevelt sul comportamento del dittatore, il presidente rispose: «Lo so che è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana».
Cuba a quei tempi era diventata una residenza per i capi mafiosi americani che gestivano alberghi, case da gioco, postriboli, col permesso di Batista che prendeva grosse tangenti. L’isola era stata definita il bordello degli Stati Uniti e rimase tale sino alla vittoria della rivoluzione castrista, il Capodanno del 1960.
Sempre in nome della democrazia, il presidente Eisenhower ordinò l’embargo contro Cuba e alla CIA di organizzare uno sbarco servendosi dei fuorusciti cubani armati dall’esercito USA e appoggiati da navi da guerra. Fu un disastro perché lo sbarco tentato alla Baia dei Porci fallì, grazie anche a Kennedy, succeduto a Eisenhower, il quale vietò l’uso dell’aviazione.
La tragedia del Vietnam. L’esportazione della democrazia continuò con la guerra del Vietnam. Dopo il ritiro dei francesi dall’Indocina avvenuto nel 1955 in seguito alla sconfitta di Dien Bien Fhu, l’accordo di Ginevra prevedeva la creazione degli Stati di Cambogia, Laos e Vietnam. Quest’ultimo era stato diviso tra il Nord, comunista e con capitale Hanoi, e il Sud, “democratico” con capitale Saigon.
Avrebbe dovuto essere una separazione provvisoria che prevedeva l’unificazione dopo un referendum popolare. Nel frattempo a Sud gli americani avevano preso il posto dei francesi con aiuti economici e “consiglieri” militari. Il referendum chiesto ripetutamente da Hanoi non arrivò mai, la “democrazia” di Saigon si trasformò in dittatura ed ebbe inizio la guerriglia dei vietcong prima con l’appoggio e poi con l’intervento diretto di Hanoi.
Il numero dei “consiglieri” americani aumentò con Kennedy, trasformandosi ben presto nella escalation che portò all’intervento diretto degli USA che impiegarono 500 mila militari in una lunga e sanguinosa guerra, persa già in partenza, come scrisse il Washington Post pubblicando documenti segreti del Pentagono.
L’esportazione della democrazia passò in Medio Oriente con il sostegno militare all’Iraq di Saddam Hussein, noto dittatore assassino, nella guerra contro la neonata Repubblica islamica dell’Iran che durò otto anni e non servì a nulla.
Nel 2001 dopo gli attentati alle Torri gemelle, il presidente Bush junior decise l’invasione dello Stato islamico dell’Afghanistan che ospitava Al Qaida, i cui membri avevano compiuto gli attentati. I padroni del Paese erano diventati quei talebani che gli USA avevano fornito di armi nella guerriglia contro le truppe sovietiche. La permanenza degli americani è rimasta 20 anni appoggiando un governo corrotto e impotente per poi abbandonarlo, lasciando il Paese nelle mani del fanatismo islamico.
Fanno parte dell’elenco le due guerre del Golfo: la prima scoppiò nell’agosto dell’1990 quando il presidente Bush senior ordinò di invadere l’Iraq per liberare il Kuwait che Saddam aveva occupato. Una volta liberato il piccolo Stato, Bush decise di ritirare le truppe dall’Iraq e lasciare il dittatore al suo posto. Fu una decisione saggia che evitò il caos nella regione.
Cosa che non fece il figlio George W. Bush, anche lui presidente, il quale condizionato dalle grandi compagnie di petrolio che avevano contribuito alla sua elezione, decise di invadere l’Iraq accusandolo di “possedere armi di distruzione di massa”. L’operazione scattò nel marzo 2003, fu l’Iraq a venire distrutto e Saddam impiccato. In realtà quelle armi non erano mai esistite e gli americani lo sapevano.
Le guerre del Golfo, associate all’invasione dell’Afghanistan, provocarono l’estendersi della Jihad islamica che dichiarò guerra all’Occidente. L’Iran ne era diventato il burattinaio.
Nel frattempo le ingerenze americane non si erano mai interrotte nel “giardino di casa”. Faccio l’esempio del Cile dove le sinistre vinsero con elezioni democratiche: la Cia organizzò il golpe di Pinochet e tre anni dopo quello in Argentina. Il grande manovratore fu il segretario di Stato USA Kissinger, premio Nobel per la pace, il quale non esitò a rendere omaggio ai golpisti.
Per concludere: lo storico Luciano Canfora scrive sul suo saggio Esportare la libertà: «Il 26 settembre del 2006 il Pontefice Benedetto XVI ha ricevuto a Castel Gandolfo Henry Kissinger e gli ha chiesto di entrare a far parte del suo staff di consulenti di politica estera. Kissinger ha accettato».
I commenti sono superflui.