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Il presidente Lula deve ricostruire il Brasile

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L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, dopo una prudente “vacanza” post elezioni, durata tre mesi e trascorsa negli Usa, è rientrato in Brasile alla fine dello scorso mese di marzo. Il suo destino appare, però, segnato: non solo sul piano politico, ma anche su quello giudiziario.

La condotta irresponsabile durante l’epidemia di covid, considerata dall’allora presidente una “gripezinha”(un’influenzina), ma cha ha ucciso 700.000 brasiliani; la sua sfacciata corruzione, testimoniata anche recentemente da un’azione della polizia federale, l’FBI brasiliana, che gli ha sequestrato parte dei gioielli donati da vari Paesi in occasione di sue visite internazionali e che non appartengono al presidente ma al Tesoro nazionale.

Sono solo le premesse di una serie di inchieste che indagano su reati gravissimi come l’attentato alla costituzione democratica per i fatti di Brasilia dell’8 gennaio o sul sospetto di essere il mandante dell’omicidio della consigliera comunale di Rio de Janeiro, Marielle Franco, esponente del Partito Socialismo e Libertà. Se provate, le accuse porteranno Bolsonaro in carcere o in esilio, ma non certo in Parlamento.

Il presidente Lula, quindi, non ha nulla da temere da un’opposizione guidata dal predecessore, ma nemmeno lui, per tutt’altri motivi, potrà dormire sonni tranquilli. Infatti, nonostante nel 2023 sia prevedibile una certa stabilità economica, seppur con una crescita ridotta del PIL, l’economia del Brasile continua a dipendere da fattori esterni e a scontare enormi limiti strutturali interni.

Ciò che determina la bilancia commerciale del Brasile sono storicamente l’agrobusiness e l’industria mineraria che stanno presentando, dall’inizio dell’anno, notevoli percentuali di crescita delle esportazioni.

Però, la bilancia commerciale non è la maggiore delle preoccupazioni di Lula.

La sfida dei prossimi mesi, infatti, sarà il controllo dell’inflazione che da febbraio sta crescendo di quasi un punto percentuale al mese, circa il doppio di quanto stimato dal governo, e della disoccupazione prodotta dall’aumento del costo del denaro necessario per contenere l’inflazione.

Il perenne problema del Brasile, mai risolto, è che le sue enormi ricchezze rimangono nelle mani di pochi perché il sistema Paese non è in grado di aggregare valore per lo scarso know how tecnologico nazionale mentre le grandi multinazionali che sono presenti hanno scelto il Paese per i “differenziali” legati al basso costo del lavoro e alla presenza di risorse naturali ingenti, ma mantenendo sostanzialmente il controllo sui processi di lavorazione.

Da ciò dipende la struttura del mondo del lavoro brasiliano: un grande numero di occupati nelle cinture industriali del Paese appesi alle oscillazioni dei mercati e, per la scadente qualità del sistema scolastico, raramente in grado di accompagnare il rinnovamento tecnologico.

Nei mandati presidenziali precedenti, Lula iniziò un lodevole processo di estirpazione della povertà estrema e di scolarizzazione assistita per le fasce altrimenti escluse dalla formazione media e superiore. La positività di queste iniziative stava nel dare speranza di vita migliore a milioni di abitanti delle periferie e provocare al contempo l’aumento della loro capacità di consumo per sostenere e stabilizzare l’economia nazionale.

Ciò che non poté, o non si pose come obiettivo, fu portare a compimento il rafforzamento di una classe media scolarizzata, progressista, aperta all’innovazione e in grado di contrastare efficacemente le spinte conservatrici generate dal timore di una “statalizzazione” del Brasile in chiave “chavista” (nel senso di ispirata a Chavez, allora Presidente del Venezuela) che, forse, era nelle corde di una parte del “Partido dos Trabalhadores”.

Se l’andamento dell’economia creerà problemi di instabilità, Lula dovrà affrontare il disincanto di un Paese alla disperata ricerca di un leader in grado di indicare il cammino per la modernità e la giustizia sociale, di combattere la corruzione e di essere in sintonia con le grandi democrazie occidentali.

Alcuni analisti e politici brasiliani sottolineano la necessità di rafforzare il ruolo della classe media nella società e stanno chiedendo che Lula abbandoni quella sorta di populismo di sinistra che ha connotato il PT negli anni passati e che per il suo ideologismo, insieme ad una serie di accuse di corruzione, alcune provate altre no, ha indotto nel 2018 la maggioranza dei brasiliani a votare Bolsonaro.

Ciro Gomes, candidato presidente alle ultime elezioni per il Partito Democratico Laburista, ha recentemente accusato pubblicamente Lula e il PT di non essere in grado di affrontare pragmaticamente le grandi questioni economiche e prevede che, vista la complessità dei problemi legati all’inflazione e ai tassi d’interesse, lasceranno la gestione dell’economia al Banco Central (principale organismo di controllo delle politiche monetarie e dei prezzi) per dedicarsi alla politica internazionale e a poco altro e che questo porterà al collasso il Brasile.

Ancora non è chiaro se Lula delegherà altri nella cura dell’economia, ma in politica estera sta mostrando grande attivismo rafforzando i legami con la Cina e sostenendo di fatto la Russia di Putin, invasore dell’Ucraina.

Il timore è che la distorsione prodotta nella politica brasiliana dalla dittatura militare che ancora oggi produce nefasti effetti, sia a sinistra che a destra, induca a scambiare la dittatura degli oligarchi per la dittatura del proletariato a conferma di una sorta di isolamento culturale del più grande Paese dell’America Latina.

Un po’ come quando Lula concesse asilo a Cesare Battisti scambiandolo per un combattente per la libertà perché nel 1982, mentre Battisti voleva abbattere la democrazia con le armi, in Brasile si combatteva contro la dittatura militare.

Foto Oficial do Presidente da República, Luiz Inácio Lula da Silva, di Palácio do Planalto

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