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La Resistenza congelata dai miasmi del fascismo

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La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. Sono parole di Piero Calamandrei con le quali lo scorso 25 aprile il quotidiano La Stampa ha titolato l’intera prima pagina.

Calamandrei (Firenze,1889- 1955) è stato una grande figura dell’antifascismo italiano: viene ricordato per la sua grandezza morale e civile; come strenuo difensore di una democrazia “laica”, non legata alle ideologie inattuabili e ai compromessi dei partiti.

Membro dell’Assemblea Costituente, durante il fascismo nel 1941 aveva aderito al movimento “Giustizia e Libertà” e l’anno dopo, in piena clandestinità, fondò assieme a Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Emilio Lussu, il Partito d’Azione (Azione di Carlo Calenda non ne ha alcun legame).

Quel partito si rifaceva alla “Rivoluzione liberale”, pensiero di Piero Gobetti, il giovane intellettuale – assassinato dai fascisti nel 1926 – propugnatore dell’antifascismo di matrice liberal radicale che definiva il fascismo come espressione dei mali storici italiani.

Appena nata la Repubblica, Calamandrei assieme ad altri membri del suo partito denunciarono subito che i “miasmi” della decomposizione del regime già ammorbavano l’Italia democratica.

E per dare un nome a questo pericolo usò il termine desistenza in contrapposizione a resistenza. Quelle parole rappresentavano i due diversi modi di concepire la politica e la realtà del Paese che ritornava a vivere.

Una vignetta su Calamandrei disegnata da Fulvio Simoni

In un articolo sulla rivista Il Ponte, nel 1946 Calamandrei scriveva: «La Resistenza è stata una esperienza di un popolo rassegnato che sotto la morsa del dolore e lo scudiscio della vergogna si è accorto della libertà». Sulla desistenza aggiungeva: «È una condizione in cui affiorano l’oblio, il rifiuto di trarre conseguenze logiche della esperienza sofferta; del riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato; nella sfiducia nella libertà; nel desiderio di appartarsi e di lasciare la politica ai politicanti». Un pensiero attuale anche nei nostri giorni.

L’uomo qualunque e il qualunquismo

E proprio nel febbraio del ’46 nasceva L’uomo qualunque, un partito che alle elezioni del 2 giugno ottenne circa 1.300.000 voti. Portava avanti istanze reazionarie, populiste e anticomuniste e contrarie alla politica in generale, ben accolte dal travet, il piccolo impiegato frustrato, cioè dall’uomo qualunque appartenente a quella classe di cittadini descritti tanto bene da Silvio Lanaro nella sua Storia dell’Italia repubblicana : «Noi vogliamo vivere tranquilli, non vogliamo agitarci permanentemente come non abbiamo voluto vivere pericolosamente; vogliamo andare a teatro, uscire la sera, trovare le sigarette, ordinarci un abito nuovo».

È proprio l’immagine dell’individualismo e del disimpegno dalla vita sociale, comportamenti appartenenti al populismo che politicamente oggi ha alimentato la Lega, il berlusconismo, i Cinque stelle, Fratelli d’Italia, movimenti che hanno contribuito (e continuano a farlo) allo svuotamento della Costituzione.

Già a partire dal ’46 sino all’anno della sua precoce morte, Calamandrei aveva manifestato la sua amarezza e la preveggenza che la Costituzione, nata dalla Resistenza, «era stata rimossa, congelata dai vinti del 25 aprile, trasformatisi nei vincitori della restaurazione».

I Patti lateranensi

Ma anche molti vincitori della Resistenza congelarono la Carta costituzionale nata da uno slancio eccezionale di tutti i partiti che parteciparono alla nascita della democrazia.

La maggioranza democristiana rinviò sino al ’55 la nascita della Corte costituzionale e poi vi mise alla presidenza il fascista Azzolini; Togliatti che impose al partito comunista (nonostante molte proteste tra i quadri dirigenti) di inserire nell’articolo 7 della Costituzione, senza cambiare una virgola, i Patti lateranensi tra il Vaticano e il governo fascista.

Cinque giorni prima del voto in Parlamento uno dei dirigenti del PCI, Giancarlo Pajetta, annunciò il “no” del partito. E poi ci fu l’improvviso voltafaccia di Togliatti che si giustificò affermando: “Non potevamo dichiarare guerra a tutti i cattolici italiani”. Ma il mistero su quella scelta rimane oscuro. Forse ci fu un accordo con De Gasperi, poi tradito da quest’ultimo.

Togliatti fu ricambiato subito dopo con la cacciata dal governo De Gasperi del PCI e dei socialisti (che invece si erano opposti ai Patti lateranensi) e con la scomunica lanciata da Pio XII contro i comunisti.

Così Calamandrei commentò l’accordo con la Chiesa: «I Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale e ne deriva una seconda proposizione: che lo Stato confessionale è inconciliabile con la tutela della libertà di coscienza».

Lo Stato clerico fascista

E così fu: negli anni Cinquanta e oltre l’Italia si meritò l’espressione di uno “Stato clerico fascista”. Alcuni esempi: il 20 settembre (giorno della presa di Porta Pia) festa nazionale dell’Italia liberale, tolta da Mussolini e ripristinata dopo il 25 aprile, venne eliminata nuovamente; 11 febbraio (data della firma dei Patti lateranensi) divenne festa nazionale; nel censimento del 1951 il cittadino doveva dichiarare la religione professata e in quale parrocchia risiedeva.

La Chiesa si era ben inserita nello spazio laico della Repubblica con una pesante interferenza negli affari interni dello Stato. Rimaneva così la legge fascista del vilipendio alla religione cattolica e altre che riguardavano la morale sessuale e le leggi retrograde sulla famiglia.

La censura politica ed ecclesiastica controllava il contenuto dei giornali, dei manifesti e avvisi da affiggere in pubblico, le opere teatrali e le proiezioni cinematografiche. Le sceneggiature dovevano essere sottoposte preventivamente a una commissione composta da membri del ministero degli Interni e da due religiosi.

Questo durò sino agli inizi degli Anni settanta, periodo delle leggi sul divorzio e sull’aborto. Però nel 1975, a censura scomparsa, il film Ultimo tango a Parigi venne “condannato” dai giudici del tribunale di Bologna la cui sentenza obbligava la casa produttrice a dare alle fiamme tutte le pellicole. Il regista Bertolucci venne privato per 5 anni dei diritti civili. Quel processo fu un ritorno alla Inquisizione. Insomma in questo Paese la democrazia, con quanto è accaduto in passato e accade nei nostri giorni, non ha mai avuto pace.

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