
L’attentato a Ranucci e il lato oscuro del Paese
Tralascio i particolari, ormai noti, dell’attentato al giornalista Sigfrido Ranucci, ma considero quell’azione come una scintilla che provoca un’esplosione più estesa che rivela ancora una volta l’aspetto più duro e concreto dell’Italia che conosciamo troppo bene. Lo prendo come punto di partenza simbolico per riaprire la mappa del lato oscuro del Paese che riguarda tutti: attentati e terrore, corruzione che scivola nelle istituzioni, violenza quotidiana e mafie, divenute un fenomeno nazionale che permea economia, politica e vita civile.
L’attentato è sempre il momento in cui la realtà si fa rumorosa. Non è solo esplosione fisica, è lo squarcio che mostra i fili tagliati della sicurezza democratica, servizi che non funzionano, indagini che arrancano, responsabilità che si nascondono dietro formalismi. L’attentato è l’icona di una fragilità, lo Stato è vulnerabile, la vita esposta.
La storia italiana recente è segnata da stagioni di terrorismo politico: i tentativi di golpe, le Brigate rosse e i gruppi neofascisti, gli anni di piombo che hanno seminato morte e paura. Quelle ferite non sono cicatrizzate, hanno impresso nella memoria collettiva la possibilità che la violenza sia strumento di persuasione politica. La memoria dei caduti — magistrati, giornalisti, tutori dell’ordine, semplici cittadini — è monito e accusa: le istituzioni devono difendere con più forza la vita civile e la libertà.
Parlare di mafie non basta più; oggi significa rompere l’immagine di un tempo e guardare invece al tessuto economico e politico. Le mafie si trasformano: dagli omicidi e dalle estorsioni sono passate a forme più sofisticate di penetrazione: appalti pubblici, riciclaggio, rapporti con i colletti bianchi. È qui che la corruzione diventa la benzina che alimenta l’apparato mafioso. Falcone, Borsellino, e tanti altri lo hanno spiegato con una chiarezza che troppe volte è stata ignorata: l’antimafia è lotta contro una rete che abbraccia imprese, professioni, politica.
Negli anni Novanta Mani Pulite spalancò il sipario sulla corruzione sistemica: tangenti, favori, intrecci tra imprenditoria e apparato politico. Molto è cambiato, molto è rimasto. La corruzione non è solo reato: è erosione della fiducia pubblica, spreco di risorse che potrebbero servire a sanità, scuola, infrastrutture. Dove vince la corruzione, muore la democrazia quotidiana.
Violenza non è solo bomba o omicidio politico. È anche la violenza per le strade, quella domestica che si consuma dietro le porte, è la prepotenza delle istituzioni che ignorano il disagio sociale, è la brutalità di chi sfrutta i più deboli. È anche la forza con cui si risponde all’emarginazione con l’ordine pubblico che diventa repressione, le politiche che ignorano di curare.
Il vero dramma è la complicità che si annida nell’indifferenza. Ogni volta che un cittadino abbassa lo sguardo, che un funzionario chiude gli occhi su un appalto sospetto, che un giornale banalizza, nasce una collaborazione involontaria con l’abuso. La legalità non è solo impugnare il codice penale: è cultura civica, educazione alla responsabilità, trasparenza.
Servono una magistratura indipendente e che funzioni, strumenti investigativi moderni, protezioni efficaci per chi denuncia. Serve una società civile che non delega tutto alle forze dell’ordine: scuole che insegnino cittadinanza, giornali che non mercifichino il sensazionalismo, imprese che rifiutino il facile guadagno illecito. Serve che la politica torni a misurarsi con l’etica come criterio, non come optional.
L’Italia ha due cuori: uno che costruisce, innova; un altro che corrode, estorce, uccide. L’attentato a Ranucci — simbolo o fatto concreto — ci ricorda che la seconda faccia non è qualcosa di distante, è un elemento strutturale che va affrontato con durezza. Non ci sono scuse, né consolazioni: riconoscere la ferita è il primo atto per curarla. E chi tace, chi minimizza, chi ride del problema è parte del veleno.
Quello che serve adesso non è pietà per il passato ma esame di coscienza e volontà di cambiamento: togliere potere ai codardi che prosperano, restituire spazio agli onesti, rigenerare le istituzioni. Se vogliamo salvare la faccia vera dell’Italia — e non solo coprirla con la retorica — dobbiamo smettere di sopportare l’intollerabile.
Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, nella sua relazione alla Camera sull’attentato a Ranucci ha sottolineato che negli ultimi due anni sono stati più di 700 i casi di giornalisti segnati da minacce e atti dolosi. E se torniamo indietro negli anni l’elenco si moltiplica: non dobbiamo dimenticare l’assassinio di Walter Tobagi e di Carlo Casalegno e di tanti altri.
Il caso Ranucci mi ricorda un episodio di quasi 30 anni fa: nel maggio del 1996 sulle colline di Camaiore, un incendio distrusse completamente la villa di Chiara Beria d’Argentine, giornalista di punta dell’Espresso che allora si occupava di una serie d’inchieste sulla corruzione.
Gli inquirenti accertarono subito che l’incendio era doloso: gli attentatori lasciarono volutamente sul posto le taniche di benzina vuote. Le indagini per trovare gli autori non dettero risultati. Solo una ventina di anni dopo una vicina della villa distrutta, Giuliana Pellegrini, rivelò che era stato il marito, ormai defunto, a innescare l’incendio: «È stato Stefano (il marito ndr) ad appiccarlo dietro un compenso del cugino Roberto che aveva avuto degli screzi con la giornalista per una questione di confini».
Stefano venne ucciso poco tempo dopo a colpi di pistola. I colpevoli non furono mai trovati. «Era un uomo terrorizzato», dichiarò la donna al quotidiano Il Tirreno.
Tanto per la cronaca, nel 1996 Beria d’Argentine si occupava dell’indagine sul Lodo Mondadori e su altri scandali finanziari. Non entro nei particolari perché dovrei occupare uno spazio enorme.
Ai processi intentati dalla Procura di Milano venne fuori che il giudice Renato Squillante aveva un conto bancario comunicante con quello di Cesare Previti (avvocato di fiducia di Berlusconi) e che nel ’91 ci fu un passaggio di circa mezzo miliardo di lire.
Squillante e Previti furono condannati nei processi di primo e secondo grado, ma nel 2006 la Cassazione dichiarò che la Procura di Milano non avrebbe dovuto iniziare le indagini, per incompetenza, e annullò le sentenze.
Commento? «È l’Italia bellezza».


