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L’Italia, i giovani assassini e il disordine morale

Tempo di lettura: 4 minuti

Ormai è come un’epidemia perniciosa per la quale non è stata ancora trovata una cura o scoperto un “vaccino”. Mi riferisco ai fenomeni del femminicidio, delle morti sul lavoro, delle battaglie di strada tra giovanissimi che finiscono sempre con uno o più omicidi. Ci chiediamo in continuazione quali possano essere le dinamiche che si nascondono dietro questo quadro raccapricciante.

La società non sa rispondere, rimane impotente di fronte a questa strage quotidiana: non riesce a trovare una strategia per prevenirla se non avvalendosi di argomenti scontati, attribuendo colpe alla scuola, alla famiglia, all’ambiente. Sono motivazioni giuste ma inefficaci.

Ricorrere a una maggiore prevenzione delle forze di sicurezza non è sufficiente: gli assassinii vengono commessi spesso da persone incensurate, simili a un nemico invisibile che compare all’improvviso. Non è come accadeva negli Anni di piombo, quando il nemico era ben riconoscibile tra l’estremismo politico. Allora si riuscì a debellarlo seppur con molte difficoltà e silenzi su tante complicità.

Ma non si è mai riusciti a debellare altri nemici, i clan della mafia, della camorra, della ndrangheta, e della sacra corona unita. Le vittime della sola mafia siciliana dal dopoguerra in poi sono state più di tremila a partire dalla strage di Portella della ginestra e chissà quante altre eliminate dalle altre mafie. 

È innegabile la complicità diretta e indiretta dello Stato, attraverso i legami pericolosi tra le organizzazioni mafiose e quel mondo politico democristiano che ha governato per decenni tra l’indifferenza, lo scudo di una burocrazia immobile e l’incuria della magistratura di un tempo abituata a sorvolare sulle indagini o a rinviare “sine die” i processi.

Non dobbiamo dimenticare le stragi a partire da Piazza Fontana: l’inchiesta venne trasferita a Roma, il “porto delle nebbie”, e il processo effettuato in Calabria. L’arresto di Valpreda fu voluto dai magistrati Vittorio Occorsio e Ernesto Cudillo, che dettero credito ai rapporti della questura milanese. Denunciarono per falsa testimonianza la nonna di Valpreda e altri parenti che ne avevano confermato l’alibi, cioè che nel giorno dell’attentato si trovava a letto con la febbre. Secondo i due magistrati non serviva approfondire le indagini: per loro Valpreda era il colpevole perfetto, anarchico e ballerino.

In questi giorni la magistratura ha riaperto un’inchiesta su un assassinio avvenuto 47 anni fa, due giorni dopo l’uccisione di Moro. Si tratta del caso di “Fausto e Iaio” due pacifici diciannovenni di estrema sinistra colpiti a pistolettate da elementi dei Nar fascisti di Roma, mandati in trasferta a Milano. Le indagini ne individuarono tre e uno di questi era Massimo Carminati in seguito uno dei “fondatori” della banda della Magliana che per anni imperversò per la capitale quasi indisturbato. Le accuse sui tre vennero archiviate.

Occorsio nel luglio del ’76, venne assassinato da membri di Ordine nuovo, l’organizzazione neofascista che il procuratore aveva contribuito a far dichiarare fuori legge. Gli italiani che oggi votano a destra o non vanno a votare, non ricordano o non sanno; i più giovani ignorano che cos’era l’Italia di allora.

Tornando agli assassinii quotidiani di oggi, una delle cause è dovuta al clima di disordine morale e di tragedia che avvolge la nostra nazione sin dalla sua nascita, accompagnato dall’assenza del rispetto da parte dello Stato per la vita dei cittadini. Il nostro è un Paese malato da sempre di violenza, della prepotenza di un potere un tempo liberale solo a parole e corrotto, che ha assecondato l’arrivo del fascismo con la soppressione di quel poco di libertà esistente, bloccando il progresso della nazione e portandola in una guerra suicida.

Nel dopoguerra l’Italia sembrava riprendersi offrendo ai giovani, a partire dagli Anni cinquanta, una certa sicurezza per il futuro con la ricostruzione, con le industrie. Ma restavano ancora i fantasmi della corruzione, delle mafie, dell’arroganza del vecchio potere e di una burocrazia soffocante.

Negli anni immediatamente successivi al conflitto, tra la gioventù sviluppatasi durante il fascismo, ci fu un grande disorientamento: i giovani che avevano combattuto nella Resistenza rimasero delusi per le mancate promesse di un vero cambiamento del Paese e altri seguirono invece le vuote nostalgie fasciste dei loro padri.

Una scena di Gioventù perduta: Sernas (a sinistra) e Girotti

Il cinema neorealista. Il racconto del clima di quei tempi lo offre il film del 1948 Gioventù perduta diretto da Pietro Germi, con la partecipazione di Massimo Girotti e Jacques Sernas. Viene descritta la perdita degli ideali che colpisce anche i giovani di buona famiglia nel contesto del dopoguerra. Un giovane (Sernas) figlio di un docente universitario intraprende un percorso criminale in cerca di denaro come fuga dalla situazione sociale e morale del tempo.

Sui delitti del criminale indaga un giovane commissario di polizia (Girotti) reduce dalla Resistenza, anche lui deluso. Un suo commento sull’indagine è “libro e moschetto bandito perfetto”, parafrasando le parole di Mussolini “libro e moschetto fascista perfetto”.

Sempre nel film, il quadro di quei tempi lo precisa un professore durante una lezione in cui elenca una serie di delitti commessi dalla gioventù di allora: «È lo sfascio di una società, una società che ci ha generati e di cui forse giungeremo a vedere la fine. Ed è tempo che le forze del bene, i singoli, la famiglia lo Stato, si sveglino e lottino per la salvezza comune».

Sono parole valide anche oggi con la differenza che la delinquenza giovanile colpisce gli adolescenti figli di una società lontana dalla guerra e tecnologicamente molto più sviluppata, con una Costituzione creata per portare benessere e un maggiore senso della moralità tra tutta la popolazione. Ma questo obiettivo non è stato raggiunto e appare ancora molto lontano.

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