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L’Italia tra faccia tosta e vittimismo

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Chissenefrega. Questa espressione ha dato il via a un “refrain nauseante” (come lo ha definito Massimo Cacciari) che in questi ultimi giorni avvelena la politica italiana.

Il ritornello ha avuto inizio quando la ministra Santanché lunedì ha risposto con quell’espressione, non molto à la page per una rappresentante di governo, alla domanda di un giornalista del Corriere della Sera. «Un pezzo del partito mi vuole fuori? Chissenefrega…non mi dimetto, vado avanti», aveva risposto.

Ricordo che la ministra del Turismo è stata rinviata in giudizio per falso in bilancio e, seppur ancora innocente come vuole la legge, avrebbe dovuto dimettersi secondo il rispetto della consuetudine e del buon gusto.

Ma il clamore provocato da quell’uscita è stato sopraffatto il giorno dopo dall’exploit della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, molto più grave perché potrebbe trascinare in una situazione pericolosa l’ordinamento dello Stato.

La causa scatenante è stata il caso del “generale” Almasri, capo dei centri di prigionia libici che raccolgono migliaia di immigrati. Costui è stato condannato per crimini contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale, cui aderisce anche l’Italia.

Arrestato nel nostro Paese il 19 gennaio dalla polizia giudiziaria (come è noto), è stato rilasciato due giorni dopo e trasferito in Libia con un aereo militare italiano. Sul provvedimento sono nati molti interrogativi accompagnati da pacati commenti dell’opposizione che chiedeva al governo una spiegazione.

La spiegazione l’ha data subito la premier Meloni, ma non dai banchi del Parlamento, bensì intervenendo sui social con una terribile filippica di due minuti e mezzo.

Mostrando un foglio, ha comunicato al “popolo” di essere indagata dalla Procura di Roma insieme ai ministri Nordio e Piantedosi con il sottosegretario Mantovano, per favoreggiamento e peculato. Cioè per aver fatto rilasciare il libico per poi trasferirlo a Tripoli con un aereo di Stato.

In realtà quel foglio della Procura non indicava un avviso di garanzia. Dopo aver ricevuto un esposto da un cittadino privato, il procuratore aveva subito trasferito la “pratica” al Tribunale dei ministri, avvertendo la premier e gli altri tre membri del governo.

Perciò il magistrato non aveva dato inizio ad alcuna indagine ma aveva rispettato, come d’obbligo, la legge costituzionale 96 votata nel 1989 da tutti i partiti.

Povero Prodi. Diciamo che la Meloni si è sbagliata, forse per una svista dei suoi consiglieri e in quei due minuti e mezzo si è scagliata contro la “magistratura politicizzata”, contro l’autore dell’esposto, un certo avvocato Li Gotti definendolo un “ex politico di sinistra, molto vicino a Romano Prodi”.

Altro errore: Li Gotti proviene dal Movimento sociale e da fratelli d’Italia e, per sua stessa ammissione, non ha mai incontrato Prodi. Chissà perché Giorgia in questo periodo se la prende tanto col povero Prodi.

La filippica della premier si è conclusa con la frase “non mi lascio intimidire” ripetuta in altre occasioni.

Pier Luigi Bersani ha commentato il tutto con queste parole: «Se è andata così, un capo di governo non può cominciare il suo dire con una bugia».

La Meloni non è la sola “vittima” di quello che considera un sopruso della Magistratura. Negli ultimi 30 anni di storia della Repubblica altri sei primi ministri sono stati “indagati” allo stesso modo: Lamberto Dini, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Matteo Renzi, Giuseppe Conte e Silvio Berlusconi. L’unico a subire una condanna dal Tribunale dei ministri, è stato Berlusconi che oggi viene considerato una vittima dei giudici “comunisti”.

Il marasma politico avrebbe potuto essere evitato se i due ministri si fossero presentati in Parlamento per chiarire la vicenda del generale libico e risolverla invocando la ragion di Stato. Sarebbe stato un gesto opportuno, dati i rapporti di sudditanza e di ricatti che l’Italia deve sopportare dalla Libia, una nazione in mano a bande di moderni barbari prezzolati dall’Italia sin dai tempi dell’accordo concluso dal ministro del PD Minniti. Ma la scelta che avrebbe potuto svelenire il clima non è stata fatta. Si è preferito seguire la linea del vittimismo e dell’inasprimento dei rapporti con la Magistratura. Un’operazione che il “suo popolo” ha ben accolto.

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