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Quando Mussolini fece una “cosa buona”

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La crisi mondiale del 1929 che coinvolse anche l’Italia fascista, venne affrontata da Mussolini in una maniera insolita per il regime: si rivolse ad Alberto Beneduce non per il cognome che si accostava (per combinazione) agli ideali fascisti, ma perché il personaggio era un economista di livello mondiale. E al dittatore non importò che Beneduce, senatore del regno, fosse un socialista convinto a tal punto da dare alle tre figlie i nomi di Vittoria Proletaria, Italia Libera, Idea Nuova Socialista. Mussolini che non si fidava dei suoi gerarchi, ignoranti e profittatori, preferì rivolgersi a un “avversario” che di economia se ne intendeva.

Per la cronaca, Vittoria Proletaria sposò Enrico Cuccia, un altro importante economista e fondatore nel dopoguerra di Mediobanca.

Beneduce, che nell’Italia liberale era stato amministratore di grandi aziende statali e private, accettò e salvò l’economia italiana in grave pericolo: evitò il fallimento delle maggiori banche che avevano anche partecipazioni azionarie nelle imprese industriali, applicando un sistema che prese il suo nome.

Il “sistema Beneduce” creò, tra l’altro, l’IRI e l’IMI, istituzioni che prevedevano la partecipazione diretta dello Stato al controllo delle imprese che comunque restavano società per azioni con capitale privato in minoranza.

Mussolini chiese un solo favore all’economista: quello di salvare l’Alfa Romeo – era un appassionato di quelle auto – che stava chiudendo. La fabbrica entrata nel gruppo IRI, si riprese e quel marchio diventò famoso nel mondo a tal punto che Henry Ford ammise: «Quando vedo passare un’Alfa Romeo, mi tolgo il cappello». Anni dopo col governo Craxi e lo smantellamento dell’IRI, quell’industria venne regalata alla FIAT.

Sono stato costretto a ricordare, seppur di malavoglia, una buona scelta del duce (forse l’unica) per fare un confronto con i suoi “nipotini” di oggi, solo incapaci e arroganti, che ci governano.

L’economia italiana oggi vive una stagnazione che sembra cristallizzata: la crescita è zero, la produttività ferma, le imprese preoccupate, eppure il governo insiste nel dipingere un quadro di “ripresa” e “modello da seguire”. In questo contesto, emerge in modo sempre più evidente la strategia comunicativa della premier, che alterna affermazioni trionfali a richiami al “noi contro gli altri”, al ruolo di vittima dell’opposizione, delle circostanze internazionali o di Bruxelles. Un approccio che, oltre a essere politicamente comodo, rischia di oscurare la sostanza dei problemi reali.

Prendiamo i fatti: la manovra economica è come una goccia nell’oceano. Secondo l’Istat e la Banca d’Italia, la fiducia delle imprese è peggiorata, gli investimenti latitano, e la crescita del PIL nel quarto trimestre del 2024 praticamente si è fermata (ANSA). Eppure, la presidente del Consiglio continua a dichiarare che “l’Italia cresce più di altre nazioni europee” o che “l’economia italiana è solida” Il problema è che queste affermazioni suonano più come manifestazioni di retorica che come descrizioni attendibili della realtà.

Le critiche degli economisti a questa politica da teatro sono tante e ne elenco alcune: la comunicazione si fa più importante della concretezza. Mentre il governo celebra dati selezionati, come l’agricoltura che registra +2% nel valore aggiunto, trascura il quadro più ampio: il debito pubblico continua ad essere altissimo, la pressione fiscale rimane elevata, le famiglie italiane non percepiscono miglioramenti reali nei salari e nella qualità del lavoro, mentre inflazione e carovita crescono. In pratica, si vendono frammenti positivi come “trionfi”, mentre la struttura del Paese resta debole.

La seconda critica riguarda la strategia del vittimismo: la premier si presenta spesso come vittima delle circostanze — “la difficile situazione internazionale”, “l’Ue che ci impone vincoli”, “la congiuntura globale contro di noi”. È vero che l’Italia opera in un contesto complesso, ma trasformare sistematicamente questa realtà in una giustificazione permanente equivale a evitare di assumersi la responsabilità delle scelte. Quando si afferma che “abbiamo fatto scelte serie e l’economia tiene”, salvo poi ammettere che “ci sono problemi strutturali che vanno affrontati” ma senza dire come e quando, il risultato è una comunicazione fasulla.

La terza critica: manca una visione di medio-lungo termine. Qualche esempio: le riforme della burocrazia, la digitalizzazione, la produttività, le infrastrutture strategiche, la giustizia, il Mezzogiorno. Sono tutte questioni urgenti, ma il governo sembra preferire dichiarazioni d’intenti (“stiamo lavorando”) piuttosto che piani chiari, misurabili e risolutivi. Il risultato? Le imprese rimangono in attesa, l’auto-celebrazione prevale, e la percezione pubblica è molto scarsa.

In questo scenario, il protagonismo comunicativo della premier appare come un fine a sé stesso: presenze internazionali, annunci solennemente definiti “storici”, posture da leader forte e spesso volgare. È ovviamente legittimo che un primo ministro abbia visibilità e presenza, ma quando la comunicazione diventa prevalente rispetto al risultato, il rischio è che si spinga l’opinione pubblica a valutare più una falsa immagine del governo che il suo impatto reale sulla vita quotidiana delle persone.

Infine, si pone la questione della credibilità: quando le aspettative create vengono sistematicamente disattese, gli obiettivi ambiziosi restano irraggiungibili. Ogni volta che ci si concentra su vittimizzazioni o colpe esterne, si perde l’occasione di costruire un rapporto di fiducia basato sulla trasparenza e sulla capacità di incidere.

In sintesi: l’Italia ha urgentemente bisogno che il governo passi dal palcoscenico delle promesse al lavoro silenzioso e strutturato delle riforme. Serve meno retorica vittimistica, più concretezza. E serve che quel “noi” della premier non si trasformi in un “noi contro” che impedisce di assumersi responsabilità, di costruire alleanze, di rompere schemi. La stagnazione non si combatte con slogan, ma con scelte difficili, risorse distribuite con coraggio, e con un quadro di insieme.

Se il governo Meloni vuole davvero dimostrare che l’Italia può crescere e cambiare, deve mutare registro: meno autopromozione, meno vittimismo, più azione vera. Solo con i fatti si raccolgono i frutti. E purtroppo anche all’opposizione mancano i fatti.

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