
Algofobia
Tempo fa scrissi una riflessione che intitolai “La trappola del benessere” nella quale mi soffermai a riflettere su come questo famoso è spesso citato benessere che ricerchiamo costantemente, forse anche per conformarci ad un’immagine di sano, bello e felice, sia spesso del tutto irreale e, soprattutto, non valido universalmente (non a tutti ci fanno stare bene le stesse cose, gli stessi luoghi, la compagnia delle stesse persone, etc…). La ricerca di questo benessere preconfezionato rischia di tarparci le ali da un sentire autentico, chiuderci in gabbie fatte di protocolli e facili ricette con la conclusione di condurci ad essere, molto probabilmente, un poco più sani ed anche un poco più tristi.
Questa ostentazione della felicità e del benessere rischia di proiettarci in una costante insoddisfazione, fatta di senso di inadeguatezza e di colpa.
Recentemente, leggendo spunti del filosofo Byung-Chul Han tratti dal libro “La società senza dolore”, in cui la definisce la società algofobica (l’algofobia è una fobia specifica che si manifesta con la paura persistente e irrazionale del dolore fisico), mi è tornata alla mente quella vecchia riflessione e rileggendola mi sono posta ulteriori domande.
Byung-Chul Han, infatti, ci mette in guardia da un mondo che non tollera la sofferenza, un mondo in cui ogni segno di fragilità viene rimosso con la promessa di un benessere continuo e immediato: farmaci, terapie rapide, filtri digitali, ritocchi estetici e tecnologie del comfort ci illudono di poter controllare ogni aspetto della nostra esperienza. Ma a quale prezzo?
Il benessere, inteso come ideale assoluto e preconfezionato, diviene una limitazione ed una potenziale fonte di ansia per alcuni. La società (complici i social media) ci ricorda che dobbiamo essere sempre in forma, produttivi, sereni, vincenti e sorridenti. E se non lo siamo, la colpa ricade su di noi perché da qualche parte sicuramente abbiamo sbagliato, o non ci siamo impegnati abbastanza. Il malessere, fisico o mentale che sia, diventa un fallimento personale, un errore di gestione, qualcosa addirittura di cui vergognarsi. Ma questa visione ignora la verità fondamentale che la vita è fatta di alti e bassi, di luce e ombra: è impossibile vivere pienamente senza attraversare, riconoscere e accogliere anche il dolore. Non è vero che la colpa sia personale di fronte ad un fallimento della vita: le cose accadono e non tutto è sotto il nostro controllo oppure non sempre abbiamo gli strumenti e le risorse per far fronte alle circostanze della vita.

Ma questa idea generalizzata del benessere ostinato, che effetto può avere sulle generazioni in crescita? Cosa succede quando cresciamo intere generazioni con l’idea che il dolore non abbia un posto legittimo nella vita? Potrebbe succedere che i giovani, soprattutto gli adolescenti, si trovino disarmati di fronte alle difficoltà della vita: non hanno strumenti per dare nome e senso alle proprie ferite. Stanno male, ma spesso non sanno come dirlo o non trovano adulti disposti ad ascoltare davvero, col cuore e con la responsabilità di sostenere insieme a loro quel dolore. La sofferenza giovanile spesso è muta, come la definisce la Cirillo in ”Soffrire di adolescenza. Il dolore muto di una generazione”.
È un dolore che non si racconta con parole, ma sempre più spesso si manifesta nel corpo, nei sintomi, nei comportamenti di ritiro, rabbia, ansia, depressione o autolesionismo. In alcuni casi potrebbe giungere a prendere la forma della derealizzazione o della depersonalizzazione: forme di difesa di un sé che cerca faticosamente di ricomporsi, mettere insieme i pezzi di quella personalità che si frantuma cercando di ricostruirsi verso l’adultità.
E’ evidente come in una società che teme il dolore anche la genitorialità si sia trasformata. Spesso gli adulti cercano di proteggere i figli da ogni ostacolo, nell’illusione che l’amore si misuri nella capacità di evitare la frustrazione. Ma sappiamo bene che crescere significa anche incontrare il limite, fare esperienza del fallimento, sostenere il disagio e la frustrazione. Anche il dolore educativo o genitoriale che accompagna i passaggi, le separazioni, le trasformazioni e le difficoltà è parte della vita.
L’adolescente non ha bisogno di un adulto che “aggiusta” tutto, ma di uno che resta anche quando le cose si rompono. Un adulto responsabile che sa guardare con occhi interi, che accetta di attraversare il buio, che non fugge davanti alla fragilità e non si lascia spaventare. È da questo tipo di presenza che nasce la possibilità di trasformazione.
L’accettazione della sofferenza, il suo riconoscimento come parte dell’esperienza umana, è ciò che ci permette di evolvere: è legittimo stare male. E’ legittimo avere momenti di stanchezza, di tristezza, di paura, è legittimo non riuscire a dare sempre il massimo.
Il vero benessere non è l’assenza di dolore, ma la capacità di accoglierlo senza sentirsi in colpa, senza doverlo negare o nascondere.
Il rischio di una società senza dolore è che diventi anche una società senza profondità, senza introspezione, senza autentica connessione con la realtà e autentica connessione con chi intorno a noi sta affrontando momenti di sofferenza. Quando anestetizziamo il dolore, anestetizziamo anche la nostra capacità di sentire, di empatizzare, di vivere pienamente e di saper stare umanamente al fianco degli altri.
E allora domandiamoci: che persone desideriamo essere? Quale educazione vogliamo offrire: una che anestetizza e semplifica o una che accompagna e dona senso?
Una comunità che sa stare nel dolore insieme, invece, può generare speranza e coraggio verso un futuro non facilmente visto come roseo.
Trovare scappatoie quando non si vuol guardare dentro se stessi è la cosa più facile al mondo. Ma è solo nell’ascolto autentico del dolore, nostro e altrui, che possiamo trovare la via per la trasformazione: è restando seduti uno a fianco all’altro, in silenzio, condividendo il peso del dolore che esso si trasmuta.


