
Intelligenza artificiale, evoluzione o involuzione?
L’intelligenza artificiale sta cambiando la nostra vita. Se ne parla, se ne scrive, se ne discute ma, nella nostra società dove ciò che è immediatamente utile è sempre buono, è raro che qualcuno ne metta in dubbio la bontà, se non che in relazione all’uso che ne viene fatto. Se serve alla domotica o al controllo di un’auto va bene, se a guidare droni armati contro una popolazione inerme no. Si può essere infastiditi o compiaciuti dalla perspicacia del nostro computer o del nostro smartphone in merito ai nostri gusti personali ma è, appunto, una questione personale. Si discute se il suo impiego nel campo delle arti sia eticamente corretto e questo è più interessante. Se ne discute perché ci si sente sminuiti come esseri umani: se una macchina è capace di creare opere in grado di suscitare emozioni come e meglio di noi, qual è la nostra originalità, cosa vale, a cosa serve precisamente la nostra individualità? L’intelligenza artificiale ci arricchisce o ci impoverisce?
Credo che il modo migliore di rispondere a questa domanda sia ridurre il suo oggetto ai minimi termini.
Come tante altre cose, l’intelligenza artificiale è un utensile e cioè uno strumento, un attrezzo necessario per svolgere un’attività, né più né meno che una chiave inglese, una macchina tornitrice, un frullatore o un fornello. La sua particolarità consiste nella sua complessità. È un utensile che assomma in sé tali e tante funzioni da ridurre l’intervento umano alla pressione di un dito su un tasto, e cioè un utensile tendenzialmente autonomo. Tempo risparmiato, energie risparmiate. Ma per fare cosa?
Ci sono attività che ci arricchiscono, umanamente intendo. Più le esercitiamo e le comprendiamo, più diventano parte di noi, della nostra umanità prima che della nostra cultura. Certo, ci sono anche attività noiose, ripetitive, meccaniche che svolgiamo malvolentieri e che quindi deleghiamo volentieri, ma quali sono? Chi definisce il discrimine fra un tipo di attività e l’altro? Dovremmo essere noi a farlo ma non è così: dobbiamo adeguarci al presente, al mercato, agli altri.
Il problema è che, nel nostro mondo globale, questo discrimine non esiste. Il nostro modo di progredire consiste nel porci degli obiettivi e nel cercare di perseguirli, quindi qualsiasi mezzo ci permetta di raggiungerli è lecito; e se ci fa risparmiare tempo è più che lecito, è necessario. La concorrenza (qualsiasi tipo di concorrenza) lo rende necessario. Il PIL deve aumentare, che sia quello dello Stato o quello del singolo, che riguardi la produzione di cose o l’accumulo di situazioni, relazioni, emozioni.
È il caso di fermarsi a riflettere. Un utensile può fare cose che un uomo non potrebbe fare con le sue sole forze e, in questo caso, il problema non si pone (almeno non a questo livello: si potrebbe invece discutere se le cose che l’utensile ci permette di fare siano davvero necessarie); oppure può facilitare un’attività che si potrebbe svolgere comunque, senza il suo ausilio, ma in più tempo e con più fatica e allora bisognerebbe chiedersi se è una cosa buona. È meglio spremere le arance a mano o con lo spremiagrumi elettrico? L’esempio è banale ma, mi pare, chiarificante. Se lo faccio a mano o con uno spremiagrumi manuale ci metto più tempo e fatica ma muovo le mani in modo articolato e relativamente complesso. Se uso lo spremiagrumi elettrico basta premere e il gioco è fatto. Ovviamente non perdo l’uso delle mani ma se, insieme allo spremiagrumi elettrico, utilizzo altri strumenti del genere potrei anche dimenticarmi certi movimenti e perdere familiarità con i processi mentali a cui sono subordinati. Diventare più lento, più goffo, meno reattivo, in una parola più stupido.

Idiocracy è un film americano del 2006 diretto da Mike Judge, una distopia tragicomica che immagina un’umanità stupida, intontita dal consumismo e dalla tecnologia. Il presidente degli Stati Uniti è stato eletto perché wrestler e pornostar, le sedute del parlamento sono uno scontro di tifoserie da stadio, la gente passa il tempo davanti agli schermi incurante di tutto tranne che dei soldi e del sesso, il linguaggio è ridotto al minimo, le città sono distese di palazzi sommersi da rifiuti e l’ambiente sta morendo. Non è il nostro mondo ma qualcosa che gli assomiglia, diciamo una sua proiezione. Che sia più o meno attendibile dipende da noi.
Tutte le distopie prefigurano società dominate dalle macchine. Anche una buona parte delle utopie lo fa ed è forse per questo che spesso non si distinguono dalle distopie. Ce n’è una, però, in cui le macchine non hanno un ruolo o, se ce l’hanno, è minimo. Si tratta di Notizie da nessun luogo (News from Nowhere) di William Morris, socialista utopico, scrittore, preraffaellita e animatore del movimento Arts and Crafts, che nella seconda metà dell’Ottocento cercò di opporsi all’industrializzazione mediante la pratica delle arti e dell’artigianato, intese come la più efficace e profonda espressione dell’uomo e dei suoi bisogni. L’utopia di Morris è modellata su questi principi. Il suo avvento è il risultato della rivoluzione socialista, che sancisce la fine del capitalismo e dell’industrializzazione e cioè della società delle macchine.
Circa vent’anni prima Edward George Bulwer Lytton, personaggio d’altra provenienza, orientamento e peso, pubblicava La Razza Ventura. Nel libro si legge di una razza di uomini che vive al centro della Terra e che è capace di regolare e di accrescere la propria forza vitale. Il sapere accumulato cambia il loro corpo rendendoli capaci di fare cose che gli uomini che vivono in superficie possono fare solo collettivamente e con l’aiuto delle macchine.
Prescindendo dall’orientamento esoterico del suo autore e dall’interpretazione superomistica, miope e strumentale, che ne hanno dato le destre, è una storia che fa riflettere. Nelle specie animali (e perciò anche nell’uomo) l’evoluzione è caratterizzata dalla trasformazione e differenziazione dell’organismo, in altre parole dall’incorporazione delle abilità che l’ambiente di vita impone come necessarie. Esattamente il contrario di ciò che è accaduto in trecento anni di sviluppo capitalistico, durante i quali abbiamo pervicacemente estroiettato la nostra conoscenza in utensili sempre più complessi, delegando ad essi lo svolgimento di una parte sempre più consistente delle nostre attività. Uno sviluppo di cui l’intelligenza artificiale è (almeno per il momento) l’ultimo e più elaborato prodotto. La maggiore aspettativa e il migliore livello di vita e di benessere materiale di cui godiamo oggi hanno un prezzo: più il sapere collettivo cresce e più le nostre potenzialità crescono, ma più le nostre potenzialità crescono più, in un certo senso, diminuisce la nostra capacità di fare e di pensare autonomamente. Stiamo evolvendo o involvendo?
Come il modello sociale da cui nasce, l’intelligenza artificiale è criticabile per quello che è, prima che per l’uso che se ne fa. È il risultato finale di un mondo orientato alla produzione di cose piuttosto che all’accrescimento individuale e quindi sociale. È una cartina di tornasole del nostro modello di sviluppo, ne mette in evidenza i limiti strutturali e ne materializza le conseguenze.
Anche se non si può tornare indietro ci si può fermare, si può mettere un limite, si può stabilire un valore di soglia da non oltrepassare, cose da non fare o da non usare per non perdere le qualità che ci rendono umani. Facendolo, potrebbe aprirsi un mondo nuovo. Non proprio come quello di Morris ma quasi.