
Una strada con il cuore
Negli ultimi mesi ho messo in pausa il mio lavoro principale avendo la necessità di rallentare i ritmi quotidiani. In un primo momento è stato strano, quasi spiazzante. Poi, lentamente, mi sono accorta che stavo vivendo un’estate come non mi capitava dai tempi della scuola: giornate dilatate, silenzi abitati, sveglie che non suonano, bagni al lago, letture lunghe, studio senza fretta. Il tempo di accettare un caffè con un’amica che passa sotto casa, di praticare yoga al mattino guardando la luce cambiare, di ascoltare le parole delle persone care con uno spazio nuovo, più largo, più morbido. Perché, spesso ce ne dimentichiamo, ma le relazioni, quelle autentiche, richiedono anche del tempo non strutturato, lento e attento: questo tempo è il terreno su cui crescono le connessioni profonde, le conversazioni senza scopo, la presenza vera, che conduce al coraggio di mostrarsi per quel che si è realmente, nella propria essenza.
Un tempo meraviglioso. Rallentato, sì, ma colmo. Di significato, bellezza, valore.
Mi accorgo che posso dedicare più tempo all’associazione di volontariato di cui faccio parte, che posso vedere amici, stare con le mie nipotine, chiacchierare con i miei genitori. Certo, non sto lavorando. Guadagno meno. Sono più povera, forse. Ma davvero lo sono?
Viviamo in una società che corre, dove tutto è ottimizzato, performante, pieno: lavoro, relazioni, hobby, passioni, crescita personale. Dove il tempo libero non è mai davvero libero, ma riempito, schedulato, incastrato in calendari ricolmi di appuntamenti. Dove si lavora per risparmiare, per investire, per costruire un futuro solido, ma spesso mentre tutto questo accade… la vita scorre via.
Che prezzo ha il tempo che non viviamo? Quanto costa la nostra presenza, la nostra quiete, la nostra capacità di meravigliarci?
Io amo i miei lavori, sono fortunata: li ho scelti con cura e con cura li coltivo. Ma non credo che questa pausa sia inattiva, né sprecata. Anzi. Mi rigenera, mi insegna. E ogni volta che qualcuno mi chiede se non mi annoio a stare a casa dal lavoro, mi stupisco. Perché in realtà mi sento piena. Di tempo. Di vita.
La nostra cultura contemporanea ci trasmette la sensazione che il tempo improduttivo sia tempo sprecato, ma la scienza del cervello pare raccontarci una storia diversa.

Nel 2001 il dottor Raichie coniò l’espressione “default mode” per descrivere la funzione del cervello nello stato di riposo, divenendo questo un concetto centrale nella neuroscienza. Negli ultimi anni, approfondendo tale filone, le neuroscienze hanno identificato una rete cerebrale chiamata Default Mode Network (DMN), ovvero la rete in modalità predefinita.
Inizialmente si sviluppò l’idea che questa rete di aree cerebrali fosse coinvolta nei pensieri diretti all’interno e fosse sospesa durante quei comportamenti diretti a un obiettivo, attivandosi propriamente quando smettiamo di concentrarci su compiti specifici e “lasciamo vagare la mente” (mind wandering), come quando sogniamo ad occhi aperti, ci rilassiamo, meditiamo, facciamo una passeggiata senza meta, o semplicemente ci fermiamo a osservare il mondo attorno a noi.
Questa prima ipotesi è stata valida per molto tempo, dove si è pensato che questa rete fosse semplicemente “spenta” durante le attività strutturate, e accesa solo nel tempo libero, come se fosse una specie di sistema di riserva. Ma studi recenti mostrano che, anche quando svolgiamo compiti cognitivi complessi legati al nostro vissuto personale o alla sfera sociale, il DMN continua a lavorare in stretta collaborazione con altre aree del cervello, avvalorando così l’ipotesi che essa non sia una rete passiva, ma piuttosto una dimensione profonda della nostra coscienza.
Ulteriori studi hanno mostrato, infatti, come questa rete si attivi anche durante attività associate all’elaborazione dell’identità, alla memoria autobiografica, all’immaginazione, alla pianificazione del futuro e alla rielaborazione delle esperienze: è in quei momenti che rielaboriamo il passato, immaginiamo il futuro, costruiamo scenari possibili, riassembliamo i frammenti dell’esperienza. È proprio lì che comprendiamo meglio chi siamo, cosa sentiamo, cosa ci fa bene o ci fa male.
Non solo: il Default Mode Network è coinvolto anche nell’empatia e nella riflessione morale. È quella parte del cervello che ci permette di metterci nei panni degli altri, di intuire ciò che provano, di riconoscere le emozioni, nostre e altrui. È ciò che ci permette di raccontarci storie, di capirle, e di dare significato alla nostra esperienza.
Tutto questo ci dimostra come il tempo lento non è tempo vuoto, anzi, è forse il tempo più pieno che abbiamo. Quando ci fermiamo, dentro di noi qualcosa si mette in moto e rallentando ci sintonizziamo con ciò che conta davvero. E anche se fuori sembra non succedere nulla… dentro succede moltissimo!
In pratica: quando ci fermiamo, ci conosciamo. Quando rallentiamo, ci trasformiamo.
Il Default Mode Network ci aiuta a integrare ciò che abbiamo vissuto, a dare significato alle esperienze, a immaginare nuovi scenari, a costruire la nostra narrazione interiore. È lo spazio del senso, della creatività, dell’intuizione. È proprio quello che accade, magari senza che ce ne rendiamo conto, quando facciamo un bagno al lago, quando leggiamo un libro con lentezza, quando pratichiamo yoga senza un obiettivo di performance, quando accettiamo quell’invito improvviso per un caffè con un’amica, quando ci perdiamo ad osservare le nuvole.
In fondo, c’è un’intelligenza sottile nel tempo lento: quella del nostro cervello che, libero dalla pressione del fare, si dedica al lavoro più importante di tutti: essere.
Dovremmo, ogni tanto, essere costretti a fermarci. A guardarci. A chiederci se la corsa che stiamo facendo ha senso, se le tappe che inseguiamo sono davvero quelle che ci interessano. Se la vita che stiamo conducendo, quella vera, quella che inizia dopo il turno lavorativo, sia per noi soddisfacente. Se la strada che percorriamo ha ancora un cuore.
«Ogni strada è soltanto una tra un milione di strade possibili. Perciò dovete sempre tenere presente che una via è soltanto una via. Se sentite di non doverla seguire, non siete obbligati a farlo in nessun caso. Ogni via è soltanto una via. Non è un affronto a voi stessi o ad altri abbandonarla, se è questo che vi suggerisce il cuore. Ma la decisione di continuare per quella strada, o di lasciarla, non deve essere provocata dalla paura o dall’ambizione. Vi avverto: osservate ogni strada attentamente e con calma. Provate a percorrerla tutte le volte che lo ritenete necessario. Poi rivolgete una domanda a voi stessi, e soltanto a voi stessi: “Questa strada ha un cuore?” Tutte le strade sono eguali. Non conducono in nessun posto. Ci sono vie che passano attraverso la boscaglia, o sotto la boscaglia. Questa strada ha un cuore? E’ l’unico interrogativo che conta. Se ce l’ha è una buona strada. Se non ce l’ha, è da scartare».
Carlos Castaneda, Gli Insegnamenti di Don Juan


