
Il cipresso
Ero stanco, camminavo lentamente nel pesante silenzio del cimitero; quasi solo in quella comunità ormai muta.
Attorno a me lapidi e cipressi. I cipressi, signori dei cimiteri e non solo, che ormai associamo abbastanza ingiustamente solo a questi luoghi; mi facevano compagnia anche se si trattava di una compagnia severa, che si insinuava dentro di me, che doveva avere un senso un significato. Io però ero stanco e non riuscivo a capire, non riuscivo ad interpretare il messaggio che lanciavano quei cipressi alti, silenziosi, gravi.
Andavo da mio padre in quel pomeriggio d’estate; il sole che fino allora aveva infierito, provava un po’ di pietà per tutti noi ed andava a nascondersi fra gli alberi per non infastidirci ancora.
Mi avviavo verso il luogo dove riposava mio padre lentamente, piano piano quasi per ristorarmi in quel silenzio pesante ma insperato dopo una giornata trascorsa tra chiasso e rumori. In effetti ero solo, uniche creature attorno a me erano quegli eleganti cipressi, alti nella loro figura, scuri nell’affusolata chioma, rugosi nel vecchio tronco e che si agitavano appena appena quasi dondolando per accompagnare il mio passo. Mi fermai a guardarne uno; cominciai dal solido tronco vestito di quella strana corteccia ruvida, percorsa da mille canali che avevano lasciato la loro orma sulla grigia pelle del cipresso. Arrivai con gli occhi ai primi rami contorti che si intrecciavano come ingarbugliati da un destino beffardo; salii poi verso la cima passando man mano lo sguardo sulla chioma scura e fittissima che sembrava voler proteggere chissà quale disegno del tronco per arrivare infine alla cima che, delicatamente mossa dal vento, continuava nel suo slancio a fendere l’aria protesa verso il cielo.
Guardai e rimasi fermo, in attesa davanti a quella figura che sembrava volermi parlare… ma io non capivo.
Continuai a camminare verso mio padre; stetti qualche minuto, dopo aver cambiato i fiori, a guardare il viso di papà. La foto era abbastanza naturale ma purtroppo era la tipica foto da lapide come ce ne sono tante: papà non era così.
Tornando indietro mi fermai di nuovo davanti a quel cipresso… ma di nuovo non capii, la mia mente era affaticata e completamente vuota; il caldo ? ancora il dolore per mio padre ? la paura per il mio futuro che non si presentava molto facile ? Ovviamente non lo so; forse era tutto insieme.
A casa ripensavo a quella massa verde ondeggiante, disposta a dirmi qualcosa come se avesse avuto pietà di me, solo in quel pomeriggio d’estate nel cimitero. Sentivo un profondo rispetto per quell’albero tanto calunniato e mi sarebbe piaciuto essere capace di intendere quello che sembrava volermi dire, restare ad ascoltarlo ma c’era altro da fare.
Sono passati molti giorni e da allora non mi è più capitato di pensare alla strana sensazione che avevo provato: non capire. Ora però mi ritornava in mente, sdraiato nella mia camera il soffitto si colorava di azzurro, le crepe si allargavano nella verde e flessuosa chioma che il vento provava a piegare verso di me; l’immagine si ricostruiva con grande precisione come un ologramma e oltre che ricordare sempre meglio, avevo finalmente la sensazione di capire. Era vero che il cipresso sembrava volermi dire qualcosa: la parte bassa del tronco affaticata da una vita che aveva lasciato segni indelebili sulla sua corteccia rendendola rugosa come la pelle di un vecchio che fa tesoro degli episodi che hanno inciso la sua esistenza; i rami contorti come prova vivente dei complessi ed intricati casi della nostra esistenza che ci segnano ma che ci fanno crescere e diventare meno istintivi, più saggi; la chioma verde quasi un velo compatto per nascondere nel futuro chissà quale disegno del destino, a coprire il tronco dell’avvenire ancora per noi sconosciuto; infine la punta della chioma indice verso il cielo di un epilogo al quale non possiamo sfuggire, memo continuo della nostra fine con uno slancio che solo una vita retta, equilibrata ed onesta può donare.
Eccolo il messaggio che offriva quel vecchio albero che affondava le sue radici nell’esperienza, era un messaggio vivente, un messaggio che sarebbe sempre rimasto lì per tutti noi che non comprendiamo ed oggi quando rivedo un cipresso, fratello di quello che mi aveva dato una vera lezione di vita, l’unica parola che mi viene alle labbra è… grazie!