Orario di uscita
Che emozione, anni ottanta, giovane ingegnere, una delle prime trasferte di lavoro: dove? A New York! ma in che parte della città? Park Avenue!
Non ci credo, troppo bello per me allora, un sogno che si avverava.
Entro col naso all’insù come i ragazzini e vado al 37° piano.
Buongiorno, cerco il presidente della nostra filiale americana Jack Somerset. Prego. Dopo qualche minuto si affaccia Jack e con un sorriso stampato a tutta bocca, mi abbraccia e con un italiano accettabile, mi dà il benvenuto. Scambio di convenevoli, presentazione di Ann, la segretaria, e si comincia subito a lavorare. Mi assegnano una scrivania in una stanza con un’altra persona e comincia l’avventura americana.
Preparo un po’ di documenti e metto a posto le carte che mi sono portato dall’Italia ma intanto tengo d’occhio il mio collega di stanza; di qualche anno più grande di me, ben piazzato, capelli castani chiari, mi sembra di vedere la fede e non parla una parola di italiano.
Squilla il suo telefono e comincia la mia sorpresa: risponde con cordialità, di certo conosce l’interlocutore e mentre scambiano alcuni convenevoli preliminari, vedo che blocca con la spalla la cornetta e con attenzione chiude la cartellina che aveva davanti e dove stava scrivendo su un foglio giallo da bloc notes e la ripone in un cassetto della sua scrivania. Dopo di che apre un altro cassetto e cerca un’altra cartellina che apre diligentemente davanti a sé. Riprende la cornetta con una mano e la conversazione prosegue sui binari del lavoro. Sfoglia i documenti che ha davanti finché trova quello che cercava, prende una matita e comincia ad appuntare dettagli che emergono dalla conversazione, anzi un paio di parole vengono anche messe su un post-it giallo che si va ad incollare sulla lampada del tavolo.
La conversazione procede ancora per qualche minuto ed il mio collega continua a scrutare il contenuto di altri due fogli della cartella fino a quando non si giunge ai saluti. Bene, la sorpresa continua per me. Riappoggia la cornetta, alza lo sguardo verso di me e mi gratifica con un amichevole sorriso: richiude la cartellina della telefonata, la pone nuovamente nel cassetto da cui l’aveva presa e riapre il primo cassetto per tirare fuori nuovamente la cartellina precedente. Con grande tranquillità si rimette a scrivere su quel foglio giallo su cui stava lavorando prima. Il confronto con la mia tipica, e non solo mia, scrivania in Italia con due o tre piani di cartelline aperte tutte insieme è veramente deprimente.
Verso le 17,00 vedo passare in corridoio Jack che mi fa un cenno con la mano e mi dice sorridendo “ciao Stefano, a domani, stasera fai il bravo in città”; alzo la testa appena in tempo con un mezzo sorrisetto d’intesa per accennare un ciao. Passano un paio di minuti e nel corridoio Ann, la segretaria, mi fa ciao e sparisce. Appena il capo molla, la segretaria si defila. Poi però nell’arco dei successivi dieci minuti, tutti gli altri, compreso il mio coinquilino di stanza, si dileguano con rapidità. Sono rimasto solo con i miei documenti!
Va bene, tanto ho una marea di lavoro e mi tocca restare. Passano una decina di minuti e mi pare di sentire movimento all’ingresso, mi alzo e mi affaccio nel corridoio con la luce accesa dove stava venendo avanti la signora per le pulizie dell’ufficio: che fa lei qui? devo pulire! Non si preoccupi, sono arrivato oggi ma ho quasi finito e me ne vado tra poco.
Mi metto di nuovo al lavoro sorpreso dal tempismo delle pulizie, ma in realtà me ne importa poco o nulla. La signora finisce il suo lavoro, anche nella mia stanza, ed io sono ancora lì sulla scrivania. Se ne va salutandomi e sento battere la porta. Ottimo, ora sto tranquillo.
Passano altri dieci minuti e sento di nuovo aprire la porta. Ancora! Stavolta però la voce è maschile, profonda, e soprattutto urla: “Chi c’è? Vieni fuori con le braccia in alto!”
“Come con le braccia in alto” penso, mi alzo e lentamente mi affaccio al corridoio e mi ritrovo puntata contro una pistola dietro cui c’era un omone in divisa che mi blatera contro ancora di alzare le mani. Lo faccio immediatamente e comincio a cercare di spiegare la mia situazione di neo arrivato, che stavo ancora completando un lavoro e che me ne sarei andato nel giro di poco. Per fortuna la pistola si abbassa ma l’omone è irremovibile: me ne devo andare subito per questioni di sicurezza, al lavoro penserò domani durante l’orario di ufficio e non dopo l’orario di uscita.
Chissà perché ma gli do pienamente ragione, chiudo i documenti, spengo la luce ed esco rapidamente davanti a lui. Ora sono in strada, una bella serata nitida e freddina. Le luci di New York sono il solito grande spettacolo specie per chi ci arriva per la prima volta, così come il traffico prevalentemente di taxi gialli su Park Avenue in tutte e due le direzioni, non riuscivano però a distrarmi del tutto dal via vai di cartelline, dalla fuga delle 17, da quella canna di pistola in faccia, senza aver fatto nulla, senza aver sentito quale fosse la mia spiegazione. Una sensazione strana mi si rivoltava in pancia, in realtà stavo cominciando a digerire i primi bocconi della dieta americana e lo stavo facendo dopo l’orario d’uscita.