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Paramo

Tempo di lettura: 3 minuti

I 100 numeri del Resto delle Parole sono una tappa importante per il nostro blog ed anche motivo di orgoglio per i neo arrivati come me. Non l’ho vissuto dall’inizio ma di certo farne parte ora è motivo di grande soddisfazione e stimolo. La speranza è di vivere le prossime tappe importanti con lo stesso entusiasmo e la stessa passione.

Paramo
Appena atterrato a Bogotà era opportuno fare un salto nella sede della compagnia in centro e farsi vedere dal direttore di sede. Passare in albergo, posare i bagagli, una doccia e via. L’albergo era il Tequendama, il celebre punto di ritrovo dei boss del cartello della droga; siamo alla fine degli anni 70.

Eccolo in ufficio, dalla balconata che sovrasta l’open space la voce di Enrico, il direttore, richiamò la sua attenzione: ”Massimo ben arrivato, dai sali su.” “Eccomi”. E cominciò ad avviarsi corricchiando sui gradini. Di nuovo la voce di Enrico: “Fermo, sali lentamente, siamo ad oltre 2200 mt di altitudine!!!” Troppo tardi, gli ultimi cinque gradini furono quasi un calvario, senza fiato, bocca aperta e occhi gonfi. “Te l’avevo detto di andare piano, dai siediti, stai tranquillo, tra dieci minuti starai bene.”
E infatti fu così: benvenuto a Bogotà.

Qualche giorno dopo Enrico e Maurizio, altro dirigente della compagnia, lo invitarono ad un sabato di caccia sul Paramo e poiché Massimo non cacciava, avrebbe avuto il compito di fare il servizio fotografico dato che aveva sempre parlato del suo interesse per le foto. Così al mattino presto partirono la jeep ed il pickup per i cani in direzione di Sumapaz, il paramo di Bogotà che allora non era ancora diventato parco naturale. Una grande area tra i 3.000 e i 3.500 mt dove la natura aveva deciso di creare un ambiente unico e molto particolare.

Mentre ancora la città sonnecchiava di sabato, immagini forti e di grande contrasto scorrevano davanti al finestrino di Massimo: abitazioni fatiscenti, ammassate una all’altra tipo favela, vicino ai muri di cinta di ville in stile hollywoodiano guardate a vista da guardie in tenuta di guerra; bambini di 6-8 anni che, seduti in gruppetto sul ciglio del marciapiede, infilavano il viso in barattoli di vernice per aspirarne i vapori; i rari passanti a piedi ignoravano completamente quei bambini barcollanti e vaneggianti che avevano appena tirato fuori il naso dalla vernice. Per non parlare delle decine di persone che sui marciapiedi giacevano distese su letti di bottiglie di birra vuote e magari pochi metri dopo la strada si apriva su una immensa ed elegante piazza con al centro gli zampilli di una fontana neoclassica: benvenuto a Bogotà.

Dopo un paio d’ore abbondanti arrivarono alla zona di caccia che era stata prescelta. Massimo scese dalla jeep completamente frastornato dalla quota e soprattutto da ciò che aveva visto, era solo sorpreso dal fatto di aver visto pochissima polizia ma i suoi colleghi gli confermarono che in giro era pieno di uomini dei cartelli dei narcos difficili da riconoscere ma che tenevano d’occhio tutte le situazioni.

Il Paramo era un vero spettacolo, un altopiano di dimensioni grandiose con una vegetazione strana e mai vista in cui la fanno da padrone le frailejones, piante con un fusto tozzo e foglie che sembrano quasi ricoperte di lana; insieme a loro le puyas con la caratteristica rosetta irta di spine. Tutte loro e le altre specie, si appoggiano su un letto di erba che galleggia sull’acqua così che ogni singolo passo si appoggia al suolo, affonda un poco e quando deve sollevarsi viene ostacolato da un risucchio che cerca di trattenerlo.

I cani liberi in quello spazio senza fine, puntarono uccelli, lepri e piccoli porcellini per la gioia dei due cacciatori che quasi non si accorsero dello scorrere del tempo. Raccontavano che alcuni addirittura vivevano sul Paramo per allevare animali dato che le coltivazioni erano quasi impossibili a quella quota e con quell’acqua nel terreno ma nella giornata incontrarono solo un paio di capanni di ricovero. I colombiani dicono che sul Paramo il giorno è estate e la notte è inverno.

Le foto impegnarono Massimo distraendolo dai pensieri del viaggio di andata e risultarono decisamente interessanti per l’ambiente che ovviamente non conosceva. Si era fatta l’ora del rientro ed i cani giacevano ansanti a terra ai piedi del pickup, distrutti dalla fatica di correre su quel terreno quasi paludoso tanto che dovettero essere caricati a braccia sul pianale.

Durante il ritorno, le chiacchiere allegre dei cacciatori rimbombarono nella testa di Massimo che si sentiva malissimo: testa, respirazione, muscoli: era a pezzi! Tanto che rifiutò l’invito a cena dei colleghi e si fece lasciare al Tequendama.

Appena in stanza, saranno state le 21,30, quasi senza spogliarsi, si gettò sul letto e cercò di rilassarsi ma nel silenzio gli sembrava addirittura di sentire il rumore del battito del cuore. Provò a poggiare la mano e in effetti il cuore pulsava freneticamente… ebbe un po’ paura!

La sua cura fu la tremenda stanchezza per la giornata passata in quota a cercare di sfilare gli stivaletti dalla presa subdola ed efficace del tappeto erboso galleggiante; si addormentò pesantemente. Il mattino dopo, aprì gli occhi, erano passate più di dodici ore, andò in bagno e si guardò allo specchio: guarda come sono abbronzato con un solo giorno di Paramo. Si sfiorò il viso e, con un fastidio misto a disagio ma non a dolore, si ritrovò in mano un pezzo di pelle “cotto, bruciato, duro” grande come la sua fronte: benvenuto a Bogotà.

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