Skip links

Primo giorno di cantiere

Tempo di lettura: 5 minuti

1978
E’ ora, si parte per il cantiere: un impianto di produzione petrolchimica.
Il vero scopo di questo primo viaggio in Colombia.
Finalmente ci si sporca in cantiere.
Finalmente un vero vessel, un vero forno, una vera valvola.

Volo breve, un’ora e mezzo con un piccolo aereo, saremo meno di quindici e speriamo che qualcuno mi aspetti in aeroporto per andare in cantiere. Un po’ di emozione mista ad inquietudine c’è; si esce per la prima volta dal guscio protettivo dell’ufficio e si va sul campo, in cantiere. In più si vola per la prima volta su un aereo piccolo, veramente piccolo, ci si avvicina alla foresta amazzonica: troppe novità tutte insieme e l’adrenalina è tanta. E’ strano che non ci sia personale a bordo, la porta dopo l’arrivo dell’ultimo passeggero la chiude da fuori un assistente dell’aeroporto. Buon viaggio ci augurano i due piloti che da soli compongono l’equipaggio.

Il viaggio da Bogotà è abbastanza tranquillo, il panorama alterna montagne e vallate, alcune brulle ed altre verdeggianti ma nulla di eccezionale o forse sono io un po’ teso. Dopo poco più di un’ora il secondo pilota ci informa che si inizia l’atterraggio, guardo giù e vedo che siamo ancora alti. Dopo qualche minuto nuovo avviso per le cinture, guardo nuovamente giù ma siamo ancora alti in una zona di montagne e foreste rigogliose. Mah! Ancora un paio di minuti e l’avviso definitivo ma siamo sempre alti!
D’improvviso le ruote toccano terra, quasi un colpo al petto, siamo atterrati su una pista ottenuta tagliando la cima ad un crinale: sono atterrato… in montagna, bell’inizio sulla strada del cantiere!

Finalmente quando i gridolini di sorpresa dei passeggeri si sono spenti l’aereo si ferma, guardo fuori e vedo che quella specie di pista che abbiamo usato è terminata, dopo una decina di metri c’è lo strapiombo. Definire questo di Barranca un aeroporto è decisamente avventato: una baracca per la sicurezza che oggi non c’è, una baracca per i meccanici ma non ne vedo, una baracca per i passeggeri. In pochi minuti raccogliamo i bagagli accanto alle ruote dell’aereo e quasi d’improvviso i miei compagni di viaggio sono spariti. Il mio sguardo vaga con una certa apprensione tra le tre baracche ma non vedo nessuno che sia interessato a portarmi in cantiere. Sento solo le voci dei due piloti che dialogano con un meccanico comparso da chissà dove, circa l’orario di ripartenza.

E io? Sono solo a 500 km da Bogotà su una montagna coperta dalla foresta.
Continuo a muovermi fra quelle baracche finché, all’ombra, vedo i piedi di un uomo sdraiato per terra. Come nei film western sembrava dormire con il cappello calato sugli occhi. Mi avvicino e cerco scuoterlo, lui alza lentamente la tesa del cappello e a mezza bocca bofonchia qualcosa che suona simile al mio nome. Finalmente: è lui ! Mi fa cenno di seguirlo.

Giriamo intorno alle baracche e lui si avvia verso il un pickup bianco, butta la mia sacca nel cassone posteriore aperto, che in altre situazioni avrei definito sporco e maleodorante ma in quella giornata mi andava benissimo e mi fa cenno di salire.
Qualche tentativo di conversazione in spagnolo e si parte in discesa. La strada è tortuosa e decisamente maltenuta tra buche e rami caduti ma si procede. Dopo una curva però  la strada era franata per un paio di metri ed io ingenuamente chiedo come possiamo fare ora. La sua laconica risposta: ”no se preocupe”, detta senza minimamente rallentare, mi getta in una profonda angoscia.
Lui prosegue la sua corsa ed un attimo prima di arrivare nel punto in cui la strada mancava, accelera ancora un po’ e porta le 4 ruote motrici sul lato a monte per ricadere poi pesantemente sulla stradina oltre a frana. Mentre cerco di ricompormi, non ho urlato però, tastandomi la testa che ha battuto sonoramente sul montante laterale dello sportello, vengo gratificato da un suo mezzo sorriso; voleva essere tranquillizzante oppure era ironico verso la mia evidente paura?

Continuiamo a scendere giù dalla montagna fino ad una strada dritta e soprattutto asfaltata, che bella sensazione, siamo tornati nella normalità… forse.
All’improvviso un piccolo aereo monomotore da turismo ci passa sulla testa e si allontana seguendo una rotta analoga alla direzione della strada. Giro lo sguardo ai lati della strada che in realtà è un po’ rialzata, come i binari del treno sulla massicciata e mi metto ad osservare la fitta foresta che ci circonda e che si appoggia mollemente ai lati della strada: fiori, alberi, rampicanti, tanti colori e qualche uccello. I chilometri si susseguono finché in lontananza vedo lo stesso aereo di prima che ci sorvola in direzione opposta e sparisce rapidamente dietro le nostre spalle. Strano. Passano ancora una ventina di minuti e di nuovo il piccolo aereo ci vola sulla testa stavolta nella nostra stessa direzione e se ne rivà sorvolando la strada. Ma cosa fa, chiedo incuriosito, e lui mi dice che si tratta di un servizio di sorveglianza sul traffico locale nel caso di incidenti, in quanto se qualcuno va fuori strada e non viene subito individuato ed aiutato nell’arco di 12-24 ore la foresta lo avviluppa e ricopre e non lo trova più nessuno. Oggi ripenso con terrore al fatto che allora non esistevano i cellulari. Con questo peso facciamo gli ultimi 120 km e finalmente vedo le ciminiere e le torri di distillazione del cantiere.

Dobbiamo lavorare. Mi presento a Ole Johanson il capo cantiere, un vero esperto di impianti che dirige quel cantiere da oltre due anni con una brillante storia professionale. Convenevoli, pochi peraltro e subito a testa china sui layout e sulle specifiche. Passa poco più di un’ora quando vedo qualche operaio posare l’elmetto ed avviarsi verso l’uscita, poi qualcun altro lo segue finché Ole, con tono sbrigativo mi dice:” Dai andiamo”. Dove rispondo io ma lui si è già avviato verso l’uscita posando l’elmetto. Ovviamente lo seguo ma do un’occhiata all’orologio ed onestamente mi sembra un po’ presto, è vero che siamo in Colombia, al confine con la foresta amazzonica ma se non sbaglio, ci dovrebbero essere ancora un paio d’ore di luce.
A poche decine di metri dall’uscita del cantiere c’è il mini villaggio dei tecnici stranieri che lavorano all’impianto. Ole si avvia con passo rapido verso una di quelle più grandi ed io lo seguo con impegno. Entriamo rapidamente e dopo i saluti con la moglie di Ole, domando: “Ma che succede ?”. Ancora una volta Ole non mi risponde ed avvicinandosi ad una grande vetrata del salone, mi esorta a guardare fuori.

Sono sconvolto, guardo la luce del giorno diminuire rapidamente, sento dei colpi sul vetro sempre più numerosi e frequenti tanto da raggiungere quasi l’intensità di un rombo. Mi manca quasi il fiato a riconoscere centinaia, migliaia forse milioni di insetti che volano come impazziti: sono zanzare, enormi zanzare, decine e decine di volte più grandi delle nostre che ogni giorno, alla stessa ora salgono sull’altopiano dal fondo della foresta, forse spinte dalla temperatura o dalla variazione di pressione od anche per il grado di umidità. Ole non sapeva spiegarlo scientificamente ma quel rito demoniaco avveniva ogni giorno per una ventina di minuti infatti poco a poco torna la luce, il rumore sul vetro si attenua e le zanzare, superando il ciglio dell’altipiano, discendono nuovamente nella foresta sottostante: un’esperienza agghiacciante.

Uscendo da casa per tornare al lavoro in cantiere, confesso ad Ole lo sgomento che mi aveva procurato quella sconvolgente esperienza e gli faccio i complimenti per la serenità con cui affrontava il lavoro in quelle condizioni. Ole però si scioglie un poco e vuole raccontarmi anche un altro episodio della sua vita in quel cantiere. Oltre un anno prima la moglie aveva trovato il loro piccolo di due anni e mezzo in giardino, seduto per terra accanto ad un boa constrictor di cinque metri che al centro del corpo aveva un rigonfiamento che faceva venire in mente la struttura di un cane. Si, il loro cane che giocava in giardino col loro bimbo, era stato ucciso ed ingoiato intero dal boa che era entrato in giardino. Da allora avevano dovuto far rientrare il piccolo in Norvegia e naturalmente ne soffrivano molto.

E il primo giorno di cantiere stava per finire.

Explore
Drag