
Tiranni e tirannicidi: progettati, mancati, immaginati
E’ passato poco più di un anno da quel luglio 2024 in cui Donald Trump solo per un pelo scampò all’attentato di Thomas Crooks, fino ad allora sconosciuto studente della Pennsylvania. Trump si era candidato in elezioni democratiche e, come sappiamo, venne democraticamente eletto. Ma per le caratteristiche della sua campagna elettorale e poi, una volta eletto, della sua politica aggressiva, credo che sarebbe tranquillamente annoverato tra i despoti del mondo se non fosse per i limiti esercitati dai contrappesi costituzionali americani che, almeno per il momento, sembrano svolgere la loro funzione. Ragion per cui è fortemente auspicabile che i ricambi dei politici, anche di quelli che governano con metodi antidemocratici, avvengano con metodi pacifici e senza ricorso alla violenza.

Ma anche se il tema della violenza contro gli autocrati è rifiutato dall’etica contemporanea e non sembra più appassionare i filosofi della politica come nei secoli passati, è inevitabile andare con il pensiero a chi il problema del tirannicidio invece lo risolse positivamente, decidendo cioè di eliminare fisicamente il despota di turno.
Tra i tanti esempi che ci offre la storia, per rimanere a casa nostra, il pensiero va inevitabilmente ai tentativi di uccidere Mussolini che non mancarono mai durante il ventennio fascista, come ci ricorda in una esauriente e documentata panoramica Bruno Manfellotto nel suo bel saggio “VOGLIO UCCIDERE MUSSOLINI, Vita e trame degli attentatori del Duce“, pubblicato recentemente da Laterza.

Come racconta Manfellotto, Mussolini scampò a numerosi attentati. Coloro che provarono invano a risolvere il problema del fascismo eliminando il suo capo formano un bel gruppetto: da Tito Zaniboni a Violet Gibson, da Gino Lucetti al povero Anteo Zamboni, che aveva 15 anni quando fu trucidato dai fascisti inferociti per l’attentato.

Ma dalla lista di attentati che ci offre Manfellotto manca, ovviamente, proprio quello che avrebbe potuto avere le conseguenze più devastanti se fosse stato portato a termine dal suo potenziale esecutore, un fine e mite intellettuale del tutto estraneo a pratiche omicide. Parliamo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande archeologo e conoscitore dell’arte antica, peraltro noto anche al regime come antifascista il quale, nonostante il suo antifascismo, fu inspiegabilmente incaricato di fare da guida a Hitler nel suo viaggio in Italia nella primavera del 1938. Bianchi Bandinelli accompagnò Hitler e Mussolini nella sua visita a Napoli, a Roma e a Firenze. Stette a contatto di gomito con i due dittatori durante tutti i giorni della visita, spesso sulla stessa automobile, spesso da solo senza guardie del corpo, sempre accanto a Hitler per la sua conoscenza del tedesco oltre che per la sua profonda cultura che gli permetteva di rispondere con disinvoltura alle numerose domande che il dittatore, presunto amante dell’arte e aspirante pittore lui stesso, gli poneva in continuazione.
La cosa inspiegabile, su cui lo stesso Bianchi Bandinelli non riuscì a darsi una risposta, sta nel fatto che nonostante il suo noto antifascismo, non solo fu scelto come accompagnatore di Hitler ma non fu mai né controllato né perquisito. Ragion per cui avrebbe potuto benissimo munirsi di un’arma e uccidere contemporaneamente i due personaggi che tenevano in scacco l’Europa e che presto avrebbero scatenato la II guerra mondiale.
Sono gli anni più bui del secolo: nazismo e fascismo sembrano trionfare su tutto il continente; hanno vinto o ucciso i loro avversari, da Gramsci ai fratelli Rosselli; hanno creato quel clima senza speranza che Montale descrive così bene quando in “Primavera Hitleriana” parlando della visita di Hitler lo descrive come “un messo infernale tra un alalà di scherani”. E un uomo, da solo, si trova nella inaspettata possibilità di liberare il mondo dal mostro che presto lo divorerà.
Quindi Bianchi Bandinelli decide di approfittare della irrepetibile occasione e di uccidere contemporaneamente i due dittatori. Ma una volta presa la decisione gli vengono i dubbi: lo assalgono i timori per la famiglia che resterebbe in balia della vendetta, poi arriva la paura, quindi ci ripensa e infine rinuncia al progetto. Tutto questo ha raccontato lui stesso in un piccolo libro ormai introvabile: “Hitler e Mussolini. 1938. Il viaggio del Fuhrer in Italia”, ed. e/o. E questa strana vicenda che avrebbe potuto cambiare le vicende del mondo è stata raccontata anche in un bel documentario diretto da Enrico Caria dal titolo “L’uomo che non cambiò la storia”. Avrebbe davvero cambiato la storia il mite archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli se avesse schiacciato il grilletto del revolver che avrebbe potuto tenere in tasca, come forse l’ha cambiata Thomas Crooks che con il suo gesto secondo i sondaggi avrebbe favorito la rielezione di Trump? Questo non lo sappiamo. E neanche il mancato tirannicida che se lo chiese per tutta la vita si è dato una risposta.

Ma la storia – magistra vitae – ci insegna sempre qualche cosa, perfino nelle vicende grottesche come questa. E in questo caso ci fa capire che in un paese asservito come l’Italia del 1938, un regime tronfio e sicuro di sé si può permettere perfino di trascurare la sicurezza dei suoi capi perché è sicuro che il popolo sia definitivamente domato e incapace di ribellarsi. Sappiamo anche che per risvegliare quel paese asservito e riportarlo alla normalità democratica ci volle una guerra spaventosa, dato che le tentazioni tirannicide di un brillante intellettuale erano rimaste senza risultati concreti.


