Vizzardelli, serial killer di 14 anni nel 1937
Le cronache drammatiche di questo periodo che parlano di giovani che si macchiano di delitti, spesso inspiegabili, mi hanno riportato indietro nella memoria a un episodio di cronaca nera che colpì Sarzana, l’antica cittadina in provincia di La Spezia, accaduto nel 1937.
Me ne parlarono negli Anni settanta alcuni amici sarzanesi riportando i racconti dei loro padri. Tra il ’37 e il ’39 vennero uccise cinque persone e per quei due anni gli inquirenti brancolarono nel buio, come si suol dire. La storia appare come la trama di un libro giallo, ma i fatti che racconterò erano reali e alla fine l’autore di quei delitti venne scoperto.
Tutto cominciò la sera del 4 gennaio del 1937 nel Collegio delle Missioni di Sarzana, un edificio posto su una delle colline che circondano la città. Il rettore, don Umberto Bernardelli – giovane prete in carriera – venne ucciso nel suo ufficio a colpi di revolver da un uomo dal volto coperto. Questi fuggendo per le scale sparò anche a tre collegiali quindicenni che attendevano sul pianerottolo, ferendone uno. Arrivato al pianterreno sparò altri due colpi contro il frate portiere, Andrea Bruno, che morì un’ora dopo. Ai carabinieri riuscì a dire solo tre parole: «lo conosco, biondo, avviamento».
Le indagini passarono subito alla polizia per ordine di Mussolini che aveva il dente avvelenato contro Sarzana dove nel 1921 un gruppo armato di squadristi di Carrara tentò un assalto alla cittadina amministrata dai socialisti. Furono fermati dai carabinieri – caso raro a quei tempi – che spararono sugli assalitori uccidendone alcuni. Gli altri si sparpagliarono tra le stradine, vennero affrontati dalla popolazione e costretti alla fuga. Alcuni rimasero a terra.
Il duce voleva subito un colpevole che venisse punito con la massima pena, ma le indagini si rivelarono molto difficili. Il commissario Cozzi indagò inizialmente sulla vita privata del prete, un bel giovane, sul quale in paese circolavano voci di suoi legami amorosi con alcune signore.
L’arresto di un innocente. Poi i sospetti ricaddero su Vincenzo Montepagani, un giovane universitario assunto come insegnante da don Bernardelli e da lui rimproverato per scarsa efficienza alcuni giorni prima del delitto. Il commissario era certo della sua innocenza, ma il questore insistette per arrestarlo. Il giovane si fece 18 mesi di carcere e alla fine venne assolto, grazie anche alla difesa assunta da un noto avvocato, pagato con una colletta tra la popolazione.
Il 28 agosto del ’38, sulla riva del torrente Calcandola, che affianca la città, furono rinvenuti due cadaveri, quello del barbiere Livio Delfini e del tassista Bruno Veneziani, crivellati da proiettili calibro 22, gli stessi che avevano ucciso il prete e il frate guardiano. Ma le indagini non riuscirono a trovare un nesso logico tra i quattro delitti.
Si sparse la voce dell’esistenza di un maniaco omicida, di un serial killer, e Sarzana venne bollata come la “città del mostro”. Queste voci furono confermate dal quinto omicidio compiuto il 28 novembre dello stesso anno quando all’interno dell’Ufficio del registro venne trovato il cadavere del guardiano Giuseppe Bernardini. Era stato ucciso con un’ascia che l’assassino aveva abbandonato accanto al cadavere.
Contrariamente agli altri delitti il movente era chiaro: la cassaforte, aperta con una chiave, era stata svuotata del denaro. Il direttore dell’ufficio, Guido Vizzardelli unico possessore della chiave, la consegnò al commissario di polizia. Era avvolta da una sostanza gelatinosa, la stessa trovata sul manico dell’ascia.
La scoperta del colpevole. Il commissario Cozzi fece perquisire l’abitazione del direttore e in cantina accanto ad un alambicco erano state trovate delle bottiglie anch’esse appiccicose. Vizzardelli disse che il figlio sedicenne, Giorgio William, le usava per distillare dell’alcool, come hobby. Aveva anche la passione per le armi e il suo idolo era Al Capone.
Il ragazzo, sottoposto a un interrogatorio confessò subito con estrema freddezza di avere ucciso il guardiano che lo aveva sorpreso mentre prendeva il denaro dalla cassaforte. Gli serviva per “fuggire in America”.
Confessò anche di aver commesso gli altri quattro delitti: aveva 14 anni quando frequentava il Collegio delle missioni e sparò al prete per vendicarsi dei rimproveri e degli schiaffi da lui ricevuti dopo essere stato scoperto a scrivere su delle carte geografiche; colpì anche il frate guardiano perché lo aveva riconosciuto.
Uccise il barbiere che lo ricattava dopo averlo visto uscire di corsa dal collegio la sera della sparatoria. Gli aveva dato appuntamento vicino al torrente promettendogli del denaro. Sparò anche al tassista che aveva accompagnato con l’auto il barbiere.
Al processo, Giorgio William Vizzardelli, fu condannato all’ergastolo evitando la morte perché minorenne. Rimase in carcere sino al 1968, quando venne graziato dal Presidente Saragat. Durante la detenzione riuscì a laurearsi in lingue straniere e si dedicò alla traduzione di molte opere letterarie. Nel 1973, finito il periodo della libertà vigilata, si uccise in casa della sorella, tagliandosi la gola con un coltello da cucina.