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Venezia e i barbari del cattivo gusto

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“Quando penso a noi era destino che ti avrei incontrata qui senza più dirci addio cantava Matteo Bocelli, figlio del più noto Andrea, mentre gli sposi Jeff Bezos e Lauren Sanchez entravano nei giardini della Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio Maggiore.

Era il culmine dell’invasione di Venezia, un’invasione particolare, quella del cattivo gusto, del kitsch più profondo, che normalmente si associa ai ricchi parvenu. La città era stata trasformata in un immenso teatro preso in affitto per alcuni giorni dal quarto uomo più ricco del pianeta.

Il Canal Grande ridotto a passerella, tra gondole addobbate come carri di carnevale e invitati vestiti come figuranti di un film sdolcinato americano Anni Cinquanta col tenore italo americano Mario Lanza che cantava canzoni d’amore.

Il tutto avvolto da un’estetica opulenta che scivolava con disinvoltura nel pacchiano. Palazzi storici presi in ostaggio per una messinscena che confondeva il lusso con l’eccesso, la tradizione con il marketing. I fuochi d’artificio? Più da capodanno a Dubai che da celebrazione veneziana. I bouquet? Un’esplosione di fiori tropicali fuori stagione, alieni in Laguna. E poi lui, Bezos, vestito a metà tra guru e sposo da soap opera. Nulla a che vedere con l’eleganza sobria che Venezia meriterebbe. Un matrimonio da miliardario, sì, ma senza gusto.

Il sindaco Luigi Brugnaro raggiante per aver dato a noleggio la città per tre milioni di Euro – cifra che Bezos  incassa probabilmente in un’ora – rimasta bloccata e militarizzata per sicurezza dalle forze dell’ordine per un paio di giorni. «Ci scusiamo per aver chiuso la città – ha detto il primo cittadino – ma c’era anche la figlia di Trump». Stì ca…, avrebbero commentato a Roma.

La ministra del Turismo Santanché si è complimentata con lo sposo per la visibilità data alla città, come se ne avesse avuto bisogno, mentre al contrario l’abate dell’abbazia di San Giorgio Maggiore ha deplorato il grande show affermando che «la mondanità ostentata stride con la natura dell’isola più culturale e spirituale».

Questo è accaduto il 26 e il 27 di giugno in una città retta da una giunta comunale di destra. Ma poco più di un mese prima, il 15 maggio, Firenze amministrata dalla sinistra, aveva offerto un altro show, ma in tono minore. Si era trattato della sfilata di moda organizzata da Gucci svoltasi in Piazza Santo Spirito.

La grande piazza e una parte del quartiere erano stati chiusi ai fiorentini, negozi compresi, dalle 7 alle 21, tranne ai residenti che però ogni volta che rientravano a casa erano costretti a mostrare la carta d’identità, non alla polizia, ma agli addetti della sicurezza privata. Uno di questi aveva addirittura chiesto il documento a un bambino di 11 anni che rientrava da scuola. Ovviamente non l’aveva ed era stato respinto. Il povero piccolo se n’era andato piangendo e i genitori disperati lo hanno ritrovato dopo alcune ore.

L’ entusiasmo per l’evento lo aveva manifestato l’assessore per lo sviluppo economico Jacopo Vicini, il quale aveva dichiarato: «La visibilità della splendida piazza Santo Spirito sarà di portata mondiale e dal valore inestimabile». Non credo che anche Firenze ne avesse avuto bisogno. Rispetto a Venezia il Comune ha incassato appena mezzo milione. Un’elemosina.

In questo tripudio di cattivo gusto, di becero provincialismo, si sente l’assenza della profondità di pensiero, della mancanza di serietà. Proprio la serietà, che dovrebbe essere più presente in questi giorni drammatici di guerre che promettono un futuro peggiore. I primi a manifestarla dovrebbero essere proprio gli amministratori, i politici e anche una popolazione più attenta alla quale invece si danno in pasto questi eventi simili ai circenses dell’antica Roma.

Ma ormai la serietà viene esclusa da una buona parte del mondo politico che dovrebbe occuparsi di trasmetterla attraverso la diffusione della cultura per mezzo della scuola e dei mezzi di comunicazione, soprattutto tra le classi meno privilegiate.

Esiste un ministero che dovrebbe farlo per legge. Ma con l’attuale governo i due ministri che si sono avvicendati si sono occupati di ben altro: il primo, Gennaro Sangiuliano ha dovuto preoccuparsi principalmente delle proprie vicende tinte di rosa, di Dante Alighieri che “era di destra” e dello “spostamento” di Times Square da New York a Londra.

Il suo successore, Alessandro Giuli, considerato un uomo colto da alcuni, esperto di supercazzole, secondo altri, ha un solo obiettivo: quello di spostare a destra il mondo della cultura che sarebbe dominato dalla sinistra, addirittura dai comunisti. I risultati già ci sono: il mondo del cinema è in forte crisi; vale anche per la TV di Stato con i suoi ridicoli telegiornali, e il Teatro. Inoltre molti attori e dirigenti che lo hanno criticato sono stati “puniti”: una vittima è Geppi Cucciari che aveva osato dire riferendosi Giuli «che era l’unico ministro i cui interventi possono essere ascoltati anche al contrario e spesso migliorano». Punito con il declassamento l’antico teatro fiorentino La Pergola diretto da Stefano Massini che il ministro considera un nemico politico.

Aggiungiamo anche l’irrisione dei membri della maggioranza verso la manifestazione di Budapest sui diritti e la libertà. Che facciamo? Non ci resta che piangere, come dissero Troisi e Benigni.

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