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Il gesticolatore

Tempo di lettura: 2 minuti

Ciao a tutti…
questa è la settima e ultima seduta di terapia di gruppo a cui partecipo.

Mi fa bene, davvero.
Mi sono sentito capito…”
Disse con tono sorridente ma che odorava più o meno consapevolmente di autoconvincimento.
Poi si schiarì la voce, con un colpetto di tosse di dubbia veridicità… e iniziò a serrare abbastanza vistosamente le mani a pugno, sopra le cosce, mentre era a sedere su una di quelle seggiolacce dure e scomode ma tanto di design…

Cercava di tenere sotto stretto controllo le sue mani.
E si notava.
Non era ancora disinvolto.
Non era ancora convinto e tantomeno convincente.
Quello che si percepiva guardandolo non era certo una guarigione… bensì, sembrava che una camicia di forza immaginaria dovesse domare quelle mani ribelli, imbrigliate dito per dito, costrette a tacere.
Ed era un lavoro sfibrante.

Così riprese a parlare:
“…mi sento compreso, veramente…
Però… io non ce la faccio.
Basta.
Non provo vergogna, non mi sento sbagliato.
Io, spessissimo, punto l’indice quando parlo.
Può risultare bruttino, giudicante, accusatorio, provocatorio.
Sì, è vero… l’ufficio risorse umane dell’ azienda in cui lavoriamo, me lo ha fatto decisamente notare.
Ma non voglio né accusare, né intimidire quando lo faccio.
Questa è la mia ultima volta, qui, con voi.
E ora, dovrete veramente capirmi, accettare la mia unicità…”

E si fermò.
E bevve, Dio quanto bevve.
Una bottiglietta da mezzo litro di acqua gassata, senza quasi mai respirare.
Detto senza tanti giri di parole, ciò che stava per dire, doveva essere “spinto” alla bocca come in una metaforica eruttazione.

Ci fu un istante di silenzio rumorosissimo.
Ogni partecipante alla seduta e lo stesso terapeuta, erano in attesa, appesi a quel discorso troncato in due da una sete così violenta.
Qualcuno fece anche pensieri da dissidente, perché aveva voglia di accettarsi purché sicuro di non percepirsi “patologico”.

Così, poggiata in terra la bottiglietta prosciugata alla goccia, continuò con tono calmo ma deciso.

“Io non ho sempre puntato l’indice.
O meglio, non così tanto come negli ultimi anni.
Di fatto, è la reminiscenza di un gesto infantile.
Da bambini, prima di parlare o avere una rudimentale forma di comunicazione verbale, si indica.
Si indica perché si vuole toccare.
Si vuole conoscere.
Si vuole vedere da vicino.
È l’ unico linguaggio corporeo che attiri l’attenzione, che esorti a capire una volontà.
Si vuole comunicare con la garanzia di essere ascoltati.
Pensateci.
Pensate alla nostra realtà.
Non è lo schermo di un cellulare.
Se io parlo con una persona di cui mi interessa veramente l’attenzione, punto il dito su di lei, quasi in modo sguaiato, goffo, primordiale…e
mentre lo faccio, comunico quanto è importante che ci sia ascolto, attenzione.
Perché sono incuriosito e appagato come un bambino, da chi “scelgo” come interlocutore.
Perché le parole non si perdano nel vuoto.
Che sono voce, sono umanità e non vanno sprecate!
Parlare con le mani in tasca… è impossibile per me.
È l’amputazione della mia personalità infantile.
E chi parla con me, se lo comprende, lo troverà genuino.
Magari buffo e sfacciato, ma vero.
State sicuri che l’unica accusa che faccio quando gesticolo, è che tengo a voi.
Vi accuso della mia fiducia… perdonatemi il paradosso!
Tengo al vostro sentire, per essere capito, tra un discorso serio, una risata o una cazzata.
Non è aggressività.
Non devo guarire.
Sono io.
È teatrale umanità.”

Così si alzò, prese la giacca che aveva sistemato sulla seggiola e la fece girare prima di indossarla come un torero agita con fierezza il suo drappo rosso per attirare l’attenzione del toro.
Guardò i suoi compagni di terapia, sorrise e agitando il suo dito indice su ognuno di loro, li salutò uno ad uno chiamandoli per nome e pronunciando parole di incoraggiamento e fiducia.

E tutti, ma proprio tutti,
si sentirono felicemente accusati
di essere meravigliosamente umani.


Copertina: immagine Depositphotos

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