Skip links

L’algerino muto

Tempo di lettura: 2 minuti

Io non so se a voi capita mai.
A volte, quando un raro frammento di giornata lo concede, cammino con più calma, come se non conoscessi il presto o il tardi. E mi capita di avere il tempo mentale, di soffermarmi su cose assurde, stralci di altrui quotidianità.

Mi succede anche in auto, quando il traffico rallenta inevitabilmente un ritorno a casa e si sta fermi, sospesi qualche minuto, nel ritmo sincopato di una giornata qualunque.
Mi guardo intorno, e intravedo una finestra.
Magari è aperta, sento delle voci.
Non so chi vive lì. Ma vedo un piccolo spicchio dell’interno della casa, un mobile, una tenda, una lampada, il soffitto (mi piace quando scorgo le travi di legno), il colore delle pareti, se la luce dell’ ambiente è calda o fredda.

E lì, ogni santa volta, mi parte l’idea di riuscire ad immaginare chi ci vive, tirando a indovinare ruoli, professioni e personaggi, le loro storie, qualche frammento sparso a casaccio delle loro vite.
Non è voyeurismo. Lo prendo solo come spunto da un flash visivo, sonoro. E poi la mia testa va avanti per conto suo, si diverte, si ingegna.

Dite che è grave?

Una volta mi è successo anche a lavoro. E ancora una volta, perché il tempo, in quel momento, rallentava.
Avevamo in cura un gatto epilettico. Il proprietario, era un ragazzo giovane, ombroso.
Non spiccicava parola.
Alto, sempre serio, scuro.
Una ragazza che lo accompagnava, parlava per lui che rispondeva al massimo con dei cenni.

C’ho provato a lungo, a non costruire una storia mentale su questo personaggio.
Ma è stato più forte di me.
Oltretutto, il fatto che le visite del suo gatto, fossero rallentate da questo ritmo narrativo assurdo, fatto di cenni, sguardi e parole incerte da parte della sua accompagnatrice, mi dava il tempo di carpire particolari importanti per elaborare la mia insensata teoria.

Dopo un po’ di settimane, arrivai a sostenere che c’era una sola spiegazione plausibile.
Lui, era “l’algerino muto”.
Un ragazzo arrivato qui, senza saper masticare una sola parola d’italiano, o forse proprio muto e magari, necessariamente ombroso per chissà che vissuto.
Un tipo triste.

Nella sua stanza, poche cose, un materasso steso su un pancale e su una parete, un poster di Zinedine Zidane, a cui sorridere ogni tanto.
E siccome il destino è infame, pure il gatto epilettico gli era toccato.
Sennò n’aveva pochi di pensieri.
Ecco, lui, era l’Algerino Muto.

E invece?
E invece era italiano, non era muto (dopo un po’ iniziò a parlare) e neanche triste.
Era solo impacciato e timido in modo quasi antico.
E soprattutto, non credo amasse Zidane.

Dicevo, vi capita mai?

Copertina: Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950, Smithsonian American Art Museum, Gift of the Sara Roby Foundation

Explore
Drag