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Quell’autunno d’agosto del 1944: una strage dimenticata

Tempo di lettura: 4 minuti

Il 19 agosto del 1944 il comandante nazista Walter Reder vuole vendicare un’azione partigiana di due giorni prima in cui erano rimasti uccisi 16 soldati tedeschi. Decide che per ogni soldato tedesco ucciso debbano morire dieci italiani. Così 159 persone, una bambina rimase viva per miracolo, persero la vita a San Terenzo Monti, in Lunigiana. Per attuare la carneficina chiese rinforzi alle camicie nere italiane, ai militi repubblichini della XL Brigata nera Vittorio Ricciarelli di Livorno. L’eccidio venne eseguito al suono di un organetto: una musica si alzava dal fondo dei soldati schierati. Arrivava da un punto in ombra del pascolo… Questa era la modalità con cui agivano i fascisti che facevano capo al colonnello Giulio Lodovici.

Agnese Pini, direttrice già della Nazione e ora di QN che riunisce tre quotidiani (La Nazione, il Resto del Carlino e Il Giorno), è l’autrice di Un autunno d’agosto, un libro che ricostruisce questa strage impunita. Un eccidio che l’autrice conosce fin da bambina perché tra le vittime c’era la bisnonna Palmira.

Quando non ci sono colpevoli e non si ha un processo giusto, come accadde alla nonna di Pini che nella strage perse la madre, e quando le uniche parole che ci si sente dire sono “vai avanti e dimentica”, allora rielaborare diventa complicato. In più le vittime provano tutte una sorta di pudore, quasi una vergogna, che le induce a tacere. Eppure, la nonna della direttrice negli ultimi tempi della sua vita ha sentito l’esigenza di raccontare, testimoniare. Il suo racconto è rimasto intimo circoscritto, perché spesso le vittime dei crimini di guerra sono contadini, privi di mezzi per invocare la verità. Per molti anni i singoli e le comunità sono stati lasciati al loro dolore perché il nostro Paese non ha mai fatto del tutto i conti, non ha mai avuto la sua Norimberga.

Afferma Pini: “Se questo Paese, dopo 80 anni, è ancora profondamente diviso sulla memoria di quel periodo, è anche perché allora la ragione di Stato, che imponeva di ricostruire presto una repubblica, una democrazia, è andata nella direzione di mettere una pietra sopra quanto era accaduto. Il risultato è una memoria frantumata, la nostra incapacità di avere un giudizio sereno e univoco anche su cosa è stato il fascismo”.

Per anni la nonna ha pensato che se non ci fosse stata l’azione partigiana non avrebbe perso la sua mamma, ma, come prosegue Pini in una intervista: “Nell’estate del ’44 lo stesso battaglione della 16ma divisione SS, comandata dal maggiore Walter Reder, tracciò una lunga scia di sangue e sterminio lungo l’Appennino, provocando quasi duemila morti. Fu una strategia precisa, pensata per fiaccare la resistenza civile. Per questo le polemiche sui partigiani stanno a zero. Accanto alla resistenza armata, bisogna però annoverare anche quella civile, di contadini e pastori che si sono trovati l’invasore a casa e hanno pagato un prezzo altissimo. Senza di loro, senza i partigiani che con gli alleati hanno cacciato i nazisti dal nostro territorio, non avremmo avuto gli anni di pace di cui ancora godiamo.”

La verità della strage è stata per 70 anni nascosta ne “l’armadio della vergogna”. Solo a inizio 2000, Marco De Paolis procuratore militare della Spezia, si trovò sulla scrivania alcuni fascicoli dell’armadio, desecretati in concomitanza col processo per le Fosse Ardeatine. Contenevano pagine di ricostruzione delle stragi commesse dai nazisti e dai fascisti italiani. Sempre la direttrice: “De Paolis è l’unico funzionario che ha ritenuto necessario fare il suo dovere: la maggior parte dei carnefici e dei sopravvissuti erano anziani o morti, ma la giustizia non ha una scadenza, il suo lavoro paziente e ostinato ha restituito dignità a vittime e sopravvissuti“.

Così scopriamo che tra le vittime c’è una bambina di due mesi, è stata lanciata in aria e colpita al volo da cinque camicie nere travestite da nazisti comandate da Giovanni Bragazzi. Un altro italiano, il fascista Italo Masetti, si è distinto per aver gettato una bomba a mano in una casa colonica per uccidere le donne e i bambini che lì avevano trovato rifugio e per aver incitato il suo cane perché leccasse i cadaveri.

Di fronte a questi fatti, a queste ferite mai rimarginate, Pini sente la necessità di tramandare una memoria in cui non vi sia “spazio per rivisitazioni e revisionismi, per interpretazioni relativistiche che finiscono col trasformarsi nel peggiore dei qualunquismi: quello che negando o banalizzando la verità distrugge la storia.”

La guerra in Ucraina, specie il massacro di Bucha, testimoniano che certi orrori si perpetuano identici al di là del tempo e della latitudine, questa è stata un’ulteriore spinta a raccontare cosa è accaduto a San Terenzo Monti, a fare i conti con la storia.

“Perché nel nostro Paese c’è un periodo, il ventennio fascista, che ancora non riusciamo a guardare con una memoria davvero condivisa. La storia raccontata in questo libro può diventare allora un’occasione per tornare a ciò che siamo stati con una consapevolezza nuova.Del resto, la resistenza civile di un paese si può tenere viva solo restituendo verità e dignità al destino degli ultimi. Questo è un libro sugli ultimi ed è a loro che è dedicato, perché su di loro si è costruita l’ossatura forte e imperfetta di tutto il nostro presente, dunque anche del mio.”

Un autunno d’agosto è il primo libro di Agnese Pini;è un romanzo storico, è anche una narrazione d’inchiesta a partire da una storia familiare.

Foto: Agnese Pini e la copertina del suo Un autunno d’agosto

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