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Gli inglesi cacciano populismo e fascismo

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In Gran Bretagna prima delle elezioni di giovedì per la Camera dei Comuni, la vittoria dei laburisti sui conservatori era data per scontata. I risultati della notte (ancora provvisori) non solo l’hanno confermata ma hanno attribuito al Labour un trionfo che ha segnato la storia politica del Paese: 412 seggi, su un totale di 650, contro 144 dei Tory, 61 ai Liberal Democratici, 13 al Reform, il partito neofascista di Nigel Farage.

Per i conservatori che hanno governato ininterrottamente per 14 anni, è stata una disfatta, un crollo di voti mai verificatosi in passato. La causa è dovuta al clima politico e sociale disastroso, imposto dai successori del premier conservatore David Cameron, dimessosi nel 2016 in seguito alla vittoria della Brexit al referendum.

Alla guida del governo era arrivata Theresa May, una illustre sconosciuta; poi Boris Johnson che dopo aver gestito male l’uscita dall’Europa, si era macchiato di scandali, di atteggiamenti da “buffone di corte” – come scrivevano alcuni giornali – ed era stato costretto a dimettersi. Il suo posto era stato preso da Liz Truss con una comparsa di pochi mesi, per cedere il posto al miliardario di origine pachistana Rishi Sunak, che ha dato il colpo di grazia al partito con i suoi interventi antipopolari. Per esempio i drastici tagli al welfare, soprattutto alla sanità, arrivando a eliminare la distribuzione del latte nelle scuole pubbliche.

Il regista di questa grande vittoria laburista è stato Keir Starmer, leader del partito dal 2020. Viene definito «un uomo tranquillo, un bravo inquilino della porta accanto che ha restituito fiducia al popolo».  

Anche lui (61 anni) è figlio del popolo: con il padre Rodney, operaio, la madre Josephine, infermiera, ha vissuto in un quartiere popolare di Londra. Laureatosi in Legge pagandosi le rette con borse di studio, dopo la specializzazione in diritti umani, è diventato l’avvocato dei deboli. È stato anche direttore per la Pubblica accusa della Corona.

Divenuto leader del Labour, ha capovolto la linea politica del suo predecessore Jeremy Corbyn sconfitto rovinosamente alle elezioni del 2019 dopo aver portato il partito verso il massimalismo più estremo.

Venerdì, dopo l’incontro del mattino con Re Carlo, che gli ha affidato il governo della nazione, nel pomeriggio ha preso possesso della residenza al numero 10 di Downing Street. E dalla strada ha pronunciato il suo primo discorso: «Innanzitutto dobbiamo pensare al Paese – ha detto Starmer – abbiamo smesso di essere un partito di protesta cinque anni fa. Ora vogliamo essere un partito al governo».  

Non ha fatto grandi promesse ma farà di tutto – ha proseguito – affinché tra cinque anni i britannici «possano dire di stare meglio di oggi». Interverrà certamente sul welfare e aumenterà la spesa per la sanità, la scuola pubblica e la transizione energetica; in politica estera ci sarà continuità sulla guerra in Ucraina e la Russia; renderà più soft il problema dell’immigrazione; non intende riportare la Gran Bretagna nell’Unione Europea.

Con questa vittoria la nube nera del populismo e del neofascismo che avvolge l’Europa continentale non ha attraversato la Manica; è la dimostrazione che il popolo britannico non si è fatto attrarre dalle destre estreme e che le sinistre riformiste possono vincere quando preparano un progetto politico concreto.

Nigel Farage, leader populista, filorusso, trumpiano, accusato di misoginia, che sperava il secondo posto nella classifica dei voti, ho dovuto accontentarsi di pochi seggi, con grande disappunto della destra italiana. Lo ha manifestato subito Il Giornale col titolo stupidamente banale “Londra si consegna alla sinistra”.

Invece i Giornali inglesi dal Times al Sun, che appartengono a Murdoch, in campagna elettorale non hanno speso una parola per Sunak, scrivendo negli editoriali che “è arrivato il tempo di cambiare”. E queste parole circolavano già da tempo negli ambienti della City, stanchi del malgoverno dei conservatori.

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