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L’Italia, una Repubblica fondata sul lavoro e sulla sciatteria

Tempo di lettura: 4 minuti

Sciatteria vuol dire genericamente trascuratezza dovuta a insensibilità e incuria. Ma rivolti al lavoro, i significati diventano abborracciato, rabberciato approssimativo, frettoloso.

Da qui ad arrivare all’omicidio colposo il passo è breve. L’articolo 589 del Codice penale afferma che questo reato avviene “quando il soggetto non vuole cagionare la morte della vittima”. Aggiunge: “Quando l’evento si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, la colpa è generica ma diventa specifica per violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline.“

La tragedia di Brandizzo è l’ultimo esempio della violazione volontaria dei regolamenti: una dipendente della rete ferroviaria di Stato (Rfi), la giovane Vincenza Repaci, aveva avvertito per tre volte al telefono il tecnico presente ai lavori che erano già iniziati sul tronco ferroviario, di sospenderli perché sarebbero passati due treni e uno era in ritardo. Ma i lavori non erano stati fermati, come dimostrano la telecamera della stazione che li inquadrava e il video fissato sul cellulare di Kevin Laganà, la più giovane delle vittime, pochi istanti prima che arrivasse il treno.

Questo incidente ne ricorda un altro, sempre legato alla sciatteria, avvenuto sulle Ferrovie Nord nei pressi di Pioltello (Mi) nel gennaio del 2018. Un treno pieno di pendolari era deragliato provocando tra i passeggeri tre morti e decine di feriti. La causa? Un breve tratto di binario aveva ceduto. In precedenza si era provveduto a rinforzarlo, ma vi avevano messo sotto un travicello… di legno.

Ma insomma in che Paese viviamo? È possibile che non si riesca a porre fine a questa sciatteria criminale che da sempre insanguina la società? Tutto per far risparmiare poche migliaia di Euro alle piccole ditte appaltatrici, milioni e miliardi alle grandi imprese.

A proposito di queste ultime, un mese fa è stato ricordato con le solite e ipocrite manifestazioni ufficiali il crollo del ponte Morandi che provocò la morte di 43 persone, avvenuto il 14 agosto del 2018. Il grande manufatto era gestito dalla Atlantia, società privata del gruppo Benetton che nel 1999 aveva ottenuto in concessione dall’IRI dopo una serie di passaggi finanziari, la rete di “Autostrade per l’Italia”.

Quel crollo non fu provocato da “cause naturali” ma dalle strutture malridotte del ponte e dall’incuria di chi lo gestiva. Nel processo, ancora in corso, le accuse rivolte ai dirigenti dell’Atlantia e di altri protagonisti della tragedia sono di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro. Insomma da buttare le chiavi del carcere per molti anni per coloro che saranno ritenuti colpevoli. Non si sa come andrà a finire ma conoscendo gli iter processuali di tante altre tragedie che hanno provocato migliaia di lutti, quasi tutti gli accusati potrebbero sperare di cavarsela.

Subito dopo l’apertura del processo un’inchiesta televisiva di Report aveva trasmesso una serie di verità inconfutabili sui maggiori dirigenti della società agli arresti domiciliari: l’amministratore delegato Giovanni Castellucci – 400 mila Euro mensili di stipendio – Michele Donferri, responsabile della manutenzione delle autostrade, Paolo Berti, direttore centrale operativo dell’azienda. Per la cronaca, Castellucci nel 2019 si era dimesso con una liquidazione di 13 milioni.

Report ha mandato in onda anche alcuni brani di telefonate fatte dagli indagati dopo la tragedia e registrate dalla Guardia di finanza. Vale la pena ricordarne alcuni contenuti. Quelli di Donferri per la grossolanità e il cinismo delle sue parole accompagnate da un forte accento romanesco che ricorda quello di alcuni film di Alberto Sordi. “Ma buongiorno un c..zo – risponde Donferri al saluto di un collaboratore – aho famme parlà a me prima che te gonfio”.

Poi una telefonata anonima alla sua segretaria: “Non fare domande”. “Hai capito chi sono?”
Lei risponde: “Sì certo, tutte queste cose che stanno succedendo”
Lui: “Ma a te che te frega?” Poi le ordina di aprire “piano, piano” i cassetti che contengono i documenti sulla gestione della manutenzione e dice “portamene una parte”.
“Mi sento a disagio, scusami”, risponde lei esitante. “Io non scuso nessuno, replica lui”.

Da inorridire di fronte a questa prova di cinismo manifestata da un alto dirigente che occupava un posto di massima responsabilità. È lo specchio di un’Italia piena di tanti personaggi che col loro potere travolgono la vita sociale del Paese, inquinano le istituzioni dello Stato, interferiscono nelle scelte dei partiti.

E i Benetton che fanno? Tacciono per un po’ fino a quando Alessandro, figlio del capostipite Luciano sbotta al telefono: “La prima cosa da dire è che qui è venuto fuori un merdaio”. Poi ufficialmente dichiara: “La tragedia del ponte Morandi peserà sempre sulla nostra famiglia. Dobbiamo scusarci”.

Di parere diverso è il padre il quale in una lettera ai giornali si lamenta della “campagna d’odio” scatenata sulla famiglia “parte lesa” rispetto alle vicende di Genova “perché nessun componente della famiglia ha mai gestito Autostrade”. Però i miliardi dei pedaggi li incassavano.

Andando indietro di anni l’elenco delle stragi diventa lunghissimo. Ne ricordiamo due: la sciagura del Vajont, in provincia di Belluno, e quella di Val di Stava, nel Trentino. La prima accadde nell’ottobre del 1963 quando l’acqua del bacino idrico contenuta dalla diga tracimò a causa di una frana e precipitò a valle distruggendo i paesi di Longarone, Erto e Casso. Le vittime furono 1910. Si sapeva da tempo che la diga gestita dalla società elettrica Sade, era stata costruita nel punto sbagliato ma niente fu fatto per porvi rimedio. Inoltre la società giorni prima, aveva fatto aumentare il livello delle acque provocando così la tragedia. Al processo ci furono soltanto due condanne: un dipendente della Sade e un tecnico del ministero dei Lavori Pubblici che si presero rispettivamente 5 e 4 anni di reclusione. Ma godranno entrambi di un condono di tre. L’avvocato della Sade era Giovanni Leone, divenuto Presidente della Repubblica nel 1971.

Il secondo, che risale al luglio del 1985, fu provocato dal cedimento degli argini di un grande bacino idrico di decantazione. Un’enorme massa d’acqua precipitò a valle provocando 268 vittime. Il bacino apparteneva a una miniera del gruppo Montedison e da tempo veniva considerato insicuro dagli abitanti della zona. Ecco le conclusioni dei tecnici della commissione d’inchiesta: Tutto l’impianto costituiva una continua minaccia alla vallata. È crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane. Al processo, nel 1992, ci furono 10 condanne.

Mi viene da citare l’articolo 1 della Costituzione aggiungendo una variante: L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro… e sulla sciatteria.

Copertina: immagine di repertorio della tragedia del Vajont

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