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Quando il “ministro della malavita” era Giolitti (e altre spigolature)

Tempo di lettura: 4 minuti

Roberto Saviano su un post ha definito Salvini “il ministro della malavita”; questi gli ha risposto sul social “altro insulto, altro odio, altra querela”. Due giorni dopo Saviano è stato cacciato dalla Rai. I giornalisti della Tv di Stato come hanno reagito? Col solito silenzio, con la stessa indifferenza manifestata quando anni fa Berlusconi fece cacciare Enzo Biagi.

Se i politici la smettessero di usare internet per sparare spesso frasi offensive, sarebbe molto meglio. Saviano dovrebbe fare più uso dell’ironia per rispondere a quegli interventi. Quante parole avrebbe potuto consumare nei confronti del suo maggior avversario! Per esempio sulle contraddizioni delle “sentenze” di Salvini che riguardano il ponte sullo Stretto: sei anni fa era contrario, oggi favorevole e ne parla proprio mentre la Sicilia è circondata dal fuoco. Il ministro ha anche criticato don Luigi Ciotti, con un’ironia da Bar Sport, solo perché questi aveva osato affermare che la costruzione del ponte avrebbe potuto attirare gli interessi della mafia.

La frase “ministro della malavita” risale a più di 100 anni fa quando lo storico socialista Gaetano Salvemini la scrisse su L’Avanti in un articolo contro l’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti accusandolo di brogli elettorali tramite prefetti e polizia, contro gli elettori socialisti. Fu una frase molto dura e azzeccata. Ma Giolitti si guardò bene dal rispondere e dal querelare; aveva altro cui pensare, cioè alle riforme che cercava di portare a termine ostacolate dalla destra liberale, dalla stampa borghese con in testa Il Corriere della Sera di Albertini, suo acerrimo nemico. Nel 1913 riuscì a varare la legge elettorale sul suffragio universale portando il numero degli elettori (le donne erano escluse dal voto) da 2.900.000 a 8.500.000. Albertini si indignò e scrisse un articolo nel quale paventava l’avanzata dei socialisti, cosa che avvenne alle elezioni successive.

Poi Salvemini, moderò i suoi attacchi a Giolitti, anzi ne approvò seppur con riserva la politica aperturistica verso la sinistra e la neutralità di fronte alle lotte sindacali. Per esempio il primo ministro non mandò l’esercito a soffocare a fucilate le proteste dei contadini della Valle Padana, cosa che avevano fatto i suoi predecessori. In Parlamento, in risposta a un deputato della Destra e ricco latifondista, che si lamentò di essere costretto a lavorare la terra al posto dei contadini in sciopero, rispose: “Continui a farlo, onorevole, così si renderà conto quanto sia duro lavorare la terra e pagherà meglio i suoi lavoranti”. In un altro aneddoto su Giolitti si racconta che quando il presidente fu costretto a dimettersi, all’uscita dal Parlamento lo aspettava l’auto ministeriale, ma lui la rifiutò affermando che non gli spettava più e chiese alla portineria di chiamargli una carrozza pubblica.

Forse se Salvini avesse conosciuto un po’ di Storia recente sarebbe stato onorato di essere definito il “ministro della malavita” che lo paragonava a Giolitti. Ma il “divo del Papeete” forse non sa ancora chi sia quell’importante uomo politico.


A Patrick Zaki non piace fare l’eroe dei film Luce
Ammiro moltissimo Patrick Zaki
per come ha sopportato la prigione, le torture e il sadismo del regime egiziano di Al Sisi. La mia ammirazione va anche alla saggezza con cui ha rifiutato – con molta gentilezza e tanti ringraziamenti – di venire in Italia con l’aereo di Stato che il governo Meloni gli aveva messo a disposizione. Ha preferito pagarsi il biglietto di un volo normale su un aereo della Egyptair che lo ha portato dal Cairo alla Malpensa.

Il quotidiano Libero ha definito quel rifiuto un gesto di ingratitudine. Cosa si aspettavano l’autore di quell’articolo e i suoi ispiratori e padroni? Che Patrick arrivasse in Italia nei panni dell’eroe salvato da Giorgia Meloni e compagni, anzi camerati, e che sceso dal jet di Stato percorresse il tappeto rosso col seguito di ministri e il solito codazzo di giornalisti tutti ripresi dalla Tv, stile film Luce?

Zaki invece ha preferito la discrezione anche se alla Malpensa non ha potuto evitare l’accoglienza spontanea e gli applausi della gente che lo incrociava all’aeroporto. Mentre saliva sull’auto che lo avrebbe portato a Bologna, ha detto tra la commozione: “E’ il mio giorno più bello, ringrazio il governo”.


Dimissioni di Mussolini? Mai avvenute. Fu cacciato dal Re
Il 25 luglio, giorno in cui 80 anni fa cadde il fascismo
, lo speaker del giornale radio Rai del mattino ha ricordato quell’avvenimento citando le “dimissioni di Benito Mussolini”. In un primo momento ho pensato a una svista sino a quando la parola “dimissioni” non è stata ripetuta più volte. Allora ho scartato la svista del giornalista pensando alla sua ignoranza su quell’avvenimento o, più maliziosamente, a una sua scelta per compiacere i nuovi “padroni” della Rai.

Mussolini non aveva mai pensato di dimettersi, neanche quando la notte del 24 il gran consiglio del fascismo gli votò contro. Il giorno dopo, era domenica, si recò a villa Savoia, da Vittorio Emanuele III, per il solito colloquio settimanale che durò una ventina di minuti. A quanto raccontò la regina Elena in un’intervista del 1950, il re lo accolse con la frase “Caro duce l’Italia va in tocchi…” e poi alzando la voce gli disse che lo aveva destituito e sostituito con Badoglio.

Altro che dimissioni: all’uscita dalla villa, un capitano dei carabinieri lo invitò a salire su un’autombulanza “per motivi di sicurezza” che lo trasferì sotto scorta sino al comando dell’Arma. Il 27 sempre sotto scorta fu condotto a Gaeta e da qui all’isola di Ponza, a bordo della corvetta Persefone. In quell’isola erano ancora relegati gli antifascisti che lui aveva mandato al confino. Vi rimase pochi giorni per essere poi trasferito alla Maddalena. E a fine agosto, l’ultimo trasferimento in un albergo del Gran Sasso, dove l’11 settembre venne liberato dai parà tedeschi.

La notizia delle “dimissioni” del duce fu diffusa la sera del 25 luglio col giornale radio delle 20 seguita dall’intervento di Badoglio e la sua nota frase, “La guerra continua…”. Contrariamente ai timori del re e del nuovo governo nessuno aveva sparato un colpo di fucile in favore del duce; i fascisti, con la loro milizia erano scomparsi di colpo e il giorno dopo le piazze si erano riempite di improvvisati antifascisti. Dove erano finiti tutti quelli che a decine di migliaia inneggiavano al Duce in piazza Venezia e altrove? Si sa da tempo che gli italiani vanno sempre in soccorso del vincitore.

Nell’immagine, una caricatura dell’epoca di Giolitti “bifronte”

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