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Correndo verso la civiltà

Tempo di lettura: 2 minuti

Al fianco di una grande donna c’è spesso un uomo coraggioso e, dietro di lei, un coglione che la insegue urlando. Questa potrebbe essere la morale di una bella storia che ora vi racconto.

Era il 19 aprile 1967, l’inverno sembrava resistere alla primavera in quel di Boston e… improvvisamente il mondo cambiò.

Ottenuto il pettorale numero 261 per correre la maratona, dopo la solita partenza caotica tra migliaia di partecipanti, K.V.Switzer stava percorrendo il terzo chilometro con una centratura per farne altri 39 e 165 metri, quando un uomo si mise a urlare correndo appresso e poi aggrappandosi alla sua maglietta strattonandola rudemente e gridando: “Vattene dalla mia dannata corsa e ridammi quei numeri!”. Questo uomo con l’espressione sconvolta si chiamava Jock Semple ed era il direttore di gara della maratona di Boston nell’edizione 1967.

Nel parapiglia, un secondo uomo di nome Thomas Miller si inserì con determinazione e forza, liberando il concorrente numero 261 dalle sgrinfie del suo assalitore che rotolò sull’asfalto urlando sempre più forte una frase sorprendente. La corsa riprese senza altri incidenti e il numerò 261 risultò tagliare il traguardo sorridente con un tempo personale di 4 ore e 20 minuti.

Personaggi e interpreti: K.V.Switzer in realtà si chiamava Kathrine Virginia Switzer, una donna americana di 20 anni, sportiva e attivista, che con lo stratagemma di indicare solo le inziali del proprio nome, riuscì ad iscriversi alla maratona fino a quel momento preclusa alle donne in quanto “troppo dura e faticosa” adatta solo per i maschi. Thomas Miller, ex giocatore di football e lanciatore del peso, era fidanzato con Kathrine e con lei si era iscritto alla gara per correrla insieme nonostante le regole vigenti e Jock Semple, il direttore di gara che, atterrato da Thomas, urlò a lungo – ripetendosi ossessivamente mentre la coppia si allontanava correndo verso il traguardo – con il grido: “Una donna, quella è una donna!”

Il fatto con la conseguente indignazione per il comportamento dell’uomo e le vecchie regole patriarcali, ma soprattutto con la simpatia totale per quello della donna ben sostenuta dal suo fidanzato, suscitò un movimento d’opinione che alla fine cambiò i regolamenti della maratona, e non solo.
Kathrine Switzer, divenuta celebre, lavorò intensamente per promuovere la partecipazione femminile alle maratone in tutto il mondo prendendo parte a oltre trenta gare, vincendo nel 1974 la maratona di New York e introducendo la specialità femminile nel 1984 nelle Olimpiadi di Los Angeles.

Nel 2017, a cinquant’anni dalla sua impresa storica, la settantenne Kathrine Switzer ha corso nuovamente la maratona di Boston indossando il suo pettorale numero 261. Da quel giorno, per decisione degli organizzatori, in suo onore, è stato ritirato quel numero di pettorale da tutte le future competizioni.

Mi pare che non ci sia molto da aggiungere al valore del gesto sportivo e civile di quella giovane donna nella primavera di Boston di tanti anni fa. Ancor meno alle tante riflessioni di questi giorni in cui solo a pronunciare il nome Giulia vien da piangere. E non si riesce neppure a sorridere quando si sente dire che non è mai questione di cultura patriarcale che ormai non esiste più…

E allora voglio dedicare – come fosse un invito a compiacersi – a tutte quelle donne importanti che usano il maschile per non ‘sminuire’ l’importanza del proprio ruolo istituzionale o professionale con la declinazione femminile, l’urlo rivelante di quel direttore di gara a Boston nel 1967: “Una donna, quella è una donna!”

Copertina: Una vignetta di Natangelo pubblicata su Il Fatto Quotidiano

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