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L’unica giustizia

Tempo di lettura: 3 minuti

Axel Münthe scrive: «…non ho paura della morte, ho paura di morire».

Sembra una frase strana tra l’altro non sono in molti a pensarla così, quasi tutti hanno paura della morte anzi sembra che si debba per forza averne paura. Di certo non è facile capire perché sia così; la ragione vera, profonda si annida tra le pieghe di quello che ci siamo abituati a chiamare l’animo umano e che oggi potremmo forse rappresentare come un insieme difforme di semplici sensazioni, spesso contraddittorie, che galleggia nel vuoto che abbiamo dentro di noi. Ci basta provare continuamente sensazioni diverse che ci accarezzano ma su cui non possiamo fermarci a riflettere perché aggrediti da altre nuove sensazioni. E se per caso ci fosse un momentaneo rallentamento in questo fiume di sensazioni saremmo noi a sollecitarne di nuove. Il mondo corre e noi dobbiamo correre con lui ma è veramente detto che “dobbiamo”? Non è facile uscire dal vortice, specie se siamo da soli a provare a farlo. Ci può servire la fede ma quale, una qualunque? Ci basta la razionalità che di certo non oggi è una prerogativa di molti uomini. Forse dovremmo rassegnarci al fatalismo che in genere non dà grande forza d’animo.

L’uomo dice di non credere, ha perso la fiducia, la speranza, ha piegato il capo e soffre. Si rende conto di vivere una vita spesso piena di dolore, di affanni, di ingiustizie in cui la gioia e la pace sono immagini sfocate, ormai quasi dimenticate, raramente raggiungibili. Si guarda allo specchio di un gruppo di media che gli restituiscono una istantanea fuggevole, anzi un insieme di istantanee dalla vita brevissima e lui crede di riconoscersi in loro ma non è vero, giorno dopo giorno gli piacciono sempre meno, vanno migliorate ossessivamente, minuto per minuto, in una rincorsa senza fine e soprattutto senza risultato.

E così alla paura di morire si aggiunge anche quella della morte; morire significa abbandonare un lungo periodo di lavoro, fatica, affetti, sacrifici, qualche risultato e per chi non crede nel “dopo”, non può più esserci nulla. L’uomo invece ha paura della morte, dell’unica cosa vera che in realtà gli resta, di ciò che in un certo senso gli renderà un po’ della dignità a cui ha spesso dovuto rinunciare durante la vita. Non riesce a capire che la morte gli farà ricordare di essere “un uomo’’ nella completezza dello spirito, nella semplice fragilità del corpo. Essa è il più alto riconoscimento che si possa fare agli uomini sottolineando una uguaglianza che trascende ogni limite terreno. In lei c’è tutto ciò che manca all’uomo: c’è l’incorruttibilità più assoluta, c’è la precisione più rigorosa, c’è l’ineluttabilità più disarmante; forse c’è Dio. Si, probabilmente la morte è una vera, grande prova dell’esistenza di Dio, forse non il mio, non Quello di coloro che leggono ma di un Dio nel quale tornare a credere, per il quale tornare a vivere senza timori, con dignità, rialzando il capo. Si possono negare molte prove dell’esistenza di Dio ma non la morte. L’uomo non può discuterla, deve accettarla, gli è superiore in tutto e per questo ne ha paura. Non l’attende come una vittoria su tutti quelli che l’hanno oppresso che hanno cercato di spegnerlo; nessuno può ottenere questa vittoria, solo la morte può farlo e quando lo farà, nessuno di noi può saperlo.

Questa aura che la contorna affascina nella sua calcolata infallibilità, quasi tranquillizza nella sua inevitabile presenza e così il vecchio Münthe ha paura di morire ma non della morte, la sente vicina ed avverte il senso di “iustitia” che emana da essa come unica forma di giustizia che ancora esiste in questo vecchio mondo malandato. Essa vale ancora per tutti noi quale che sia il colore della pelle o l’origine. E’ la conferma che siamo tutti uomini, tutti uguali almeno in un momento della vita. Dalla sua presenza nasce la serenità e la forza di sopportare a testa alta ogni cosa nella certezza che “qualcuno” almeno una volta ci renderà giustizia. Ci vuole fermezza però per accettare questa immagine della morte, l’uomo deve abituarsi a vivere la propria vita in maniera completa, profonda senza inutili piagnistei e senza la ricerca spasmodica di scorciatoie e sotterfugi che gratificano furbescamente al momento ma che non danno sostanza e significato alla vita stessa. Siamo tutti capaci di farlo? La nostra corsa continua ci aiuta in questo? Tanto la morte arriva indipendentemente dalla nostra volontà, essa è solo la scansione di un istante definitivo contro il quale nulla possiamo ed allora perché dovremmo averne paura.

Non tutti però sono in grado di sentire questo passaggio della nostra esistenza come Münthe, papa Francesco raccontava che gli tornava  alla memoria un vecchietto, un anziano bravo, che diceva: «Io non ho paura della morte. Ho un po’ di paura di vederla venire». Di questo aveva paura.

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