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Parole inafferrabili che nascono dalle macerie

Tempo di lettura: 3 minuti

Qualche giorno fa una brillante attrice, Valentina B., mi ha posto una domanda “Cos’è per te casa?”.

Per chi, come me, ha cambiato finora 6 o 7 volte la città di residenza e ha cambiato più di 10 case, viaggia frequentemente e ha visitato o lavorato in più di 30 Paesi del Mondo non è una risposta facile ed è tutta da riflettere.

Ieri, durante il mio ennesimo viaggio tra casa, ora vivo in Toscana, e Bologna mi è capitato di imbattermi in un podcast di “Amare Parole” della socio-linguista Vera Gheno che parlava di “Casa in cui tornare e il concetto di domicidio”.

“Domicidio” è una parola che sta nascendo in questi ultimi anni ed è resa inafferrabile perché non riconosciuta dalle persone, dalla società e dalle leggi, ma con effetti devastanti sulla persona, sulla società, sul diritto e sulla cultura.

Cito quello che la socio-linguista indica come “domicidio”: “la distruzione sistemica delle case delle persone”. Gheno spiega molto bene cosa è casa, cosa significa la volontaria distruzione, come il suolo e le radici sono lasciate al futuro.
Parto da questi spunti proposti da Valentina B. e da Vera Gheno per rendere meglio afferrabile la parola “casa” e le parole inafferrabili che la riguardano.

Macerie fisiche e suoli inariditi

Il telefono suona e io, che sono vicina, rispondo. E’ una voce metallica di un disco che dice: “Hai 5 minuti per raccogliere le tue cose e uscire. La tua casa sarà distrutta”.

E’ un’installazione nel museo del Walled-off hotel, creato da Banksy a Bethlehem e curato in associazione con David Grindon dell’Università dell’Essex.
Nel museo sono raccolte testimonianze e artefatti raccolti in Cisgiordania e in altre aree occupate della Palestina che raccontano le storie di quelle terre.

Non è oggi. Era qualche anno fa, prima ancora del Covid e sicuramente prima del 7 ottobre 2023.
Paralizzata dalla testa ai piedi non sapevo cosa fare. La reazione alla paura più bestiale.
In quel momento, colpita da panico e angoscia non mi era possibile pensare cosa prendere, come aiutare chi era con me, dove andare. Ed era solo una semplice simulazione!!!
Ho pensato ai miei bisnonni che hanno perso la loro casa sotto un bombardamento nella 2° Guerra Mondiale e che sono rimasti solo con quello che avevano addosso.
Ho capito perchè poi mio bisnonno, a detta di mia nonna, non era stato più da quel momento in grado di connettere fino all’ultimo dei suoi giorni. Un anno dopo, il 25 aprile 1945, è stato ucciso da un cecchino.
Mio bisnonno e mia bisnonna avevano perso il loro spazio “sacro” e “sicuro” in cui abitare la vita e radicarsi su questa terra.

Se poi le case distrutte sono molte, come avviene nelle guerre, molte sono le persone, le reti di relazione sociale e la memoria delle persone e del luogo che vengono disgregate, sradicate. Il luogo non è più vivibile.
Allora a fianco della casa fisica si perde anche la casa degli affetti, delle relazioni ed esperienze condivise, della storia e della cultura. Le radici e ciò che le nutre.

Nel podcast, Gheno puntualizza che il “domicidio” non è trattato sempre come crimine contro l’Umanità soprattutto se questo si verifica fuori di conflitti tra Stati.
(https://open.spotify.com/episode/67PTP1Oz0OQNikA1gzN9vJ)

La parola “domicidio” mi riguarda da vicino. Non so in quale punto della geografia e della storia mi trovo, ma non la trovo giusta. E per quanto riguarda te? Lo sai?

“La strada non porta a casa, se la tua casa non sai qual è”
Si! E’ una strofa di “CASA MIA” di Ghali.

Perdere la casa è la grande “disruption”, la grande rottura, il cambiamento radicale. Un dopo totalmente e terribilmente diverso dal prima.
Il più delle volte adattarsi per sopravvivere, diventa migrazione forzata e di massa. Non ci sono solo le guerre, penso alle alluvioni o ad altre calamità naturali che hanno svuotato dalle persone intere città e aree.

Ricostruire la “casa” degli affetti e delle relazioni è un primo passo nelle grandi migrazioni ma anche nei nuovi nomadismi più o meno digitali. I giovani lo vivono e lo riconoscono anche come esperienza diretta.

Ma per sentirmi a “casa” devo sentirmi accolta, considerata, supportata, nutrita e protetta: “casa” per me è dove c’è tutto questo. Il mio “ritorno” implica qualcosa di nuovo e diverso dal prima, ma con questi ingredienti. E per te?

Mi sono affacciata al web e ho visto che c’è un mondo di piccole azioni che rendono più “casa” chi sta cercando di “ritornare”.
Sono azioni di persone e tecnologie.
Una in particolare mi ha colpito “Respond Crisis Translation” (https://respondcrisistranslation.org/) è una impresa sociale fondata da una giovane donna, Ariel Koren, che fornisce servizi di traduzione e interpretazione a persone che migrano, che chiedono rifugio o che comunque trovano nella lingua una barriera alla dignità e alla sicurezza.

I servizi di traduzione e interpretazione in ben 180 lingue sono però basati su approcci, linguaggi e professionisti che hanno consapevolezza del trauma (trauma -informed) e stimolano le forze e la capacità di resilienza e anti-fragilità della persona. Ma ne parlerò nel prossimo articolo.

Copertina: The Walled Off: l’albergo di Banksy a Betlemme

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