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Va tutto bene!

Tempo di lettura: 3 minuti

Avete presente i film americani dove uno dei protagonisti è stato sbudellato e giace sul terreno pronto a esalare l’ultimo respiro? L’uomo è circondato, oltre che dalle proprie interiora sparse, dagli altri personaggi e tra questi l’eroe della storia che, con sguardo compreso e fermo, gli si rivolge pronunciando la fatidica frase: “Tranquillo, va tutto bene!” A questo siamo così abituati che non ci risulta neanche più ridicolo.

Durante il Covid abbiamo letto mille volte la scritta “Andrà tutto bene!” Da allora cosa è cambiato in quell’area dove risiedono le cause reali della pandemia che ha condizionato e ferito il mondo negli ultimi anni? Nulla, o a essere ottimisti, poco-poco. Abbiamo ridotto i rischi di zoonosi ragione certa dell’attivazione dei virus nelle nostre carni? Abbiamo messo in discussione i nostri menù basati su allevamenti intensivi, vere bombe batteriche e virali sempre pronte a esplodere? Abbiamo rivisto il nostro modo di curare la salute? Le risposte agli interrogativi portano al capovolgimento delle amorevoli scritte che abbiamo visto sui balconi, purtroppo.

Si dice resilienza, bellissima, abusata e incompresa espressione che rappresenta nelle nostre vite quanto accade ai metalli quando vengono sottoposti a shock termici: diventano più duri, più utili, più resistenti. Cosa che succede anche agli esseri viventi con i fatti del mondo che li mettono a dura prova e li rafforzano. Vale per le formiche, gli alberi, i coccodrilli, gli uccelli migratori, non per gli umani evidentemente.
Tutto è manifesto davanti a noi, ce lo spiegano fior fior di analisti, scienziati, filosofi, oltre che i fatti stessi conseguenza di dissennate scelte del passato. Ma noi, niente, proseguiamo per la nostra strada in nome del nostro stile di vita, delle tradizioni, cultura, abitudini. L’unico rafforzamento è quello della nostra propensione alla sindrome da Bar Sport. Tutti contro tutti in una eterna e inutile discussione su tutto, tanto per tirat tardi e arrivare all’ora della cena consumata guardando L’Eredità o L’isola dei famosi.

Gli anni del Covid hanno creato un solco profondo tra “La Scienza” e le altre visioni in tema di malattia e cura. Il risultato è mortificante. Da un lato il pensiero scientifico eletto a religione dogmatica, dall’altro, erette le barricate del ghetto, lo sviluppo di contrapposizioni negazioniste quando non complottiste. Ho ascoltato medici di elevata competenza e cultura sparare a zero sulle medicine alternative includendo tra queste le millenarie indiana e cinese. Ho sentito medici omeopati che stimavo, vaneggiare sulle ambulanze milanesi messe sulle strade a vuoto per spaventare i cittadini in nome della dittatura sanitaria. Ignoranze contrapposte con arroganza, appunto, da Bar Sport.

Eppure le chiavi di crescita delle cose e delle persone si trovano sempre nel prezioso baule dell’integrazione: tra i saperi, le esperienze, le culture, le risorse. Restando negli ambiti medici e della cura, quanto avrebbero da imparare nei moderni laboratori di ricerca quei terapisti convinti che dopo Rudolf Steiner non è successo più nulla. E, viceversa, tutti i medici che incontriamo negli ambulatori e negli ospedali, quanto avrebbero bisogno di re-imparare dai terapisti ‘alternativi’ come mettersi in contatto con i pazienti e non solo con le loro analisi stampate su un foglio di carta?

Giovanni Maio, un medico italiano professore di etica medica all’Università di Freiburg in Germania, ha scritto numerosi saggi; tra questi un testo che potrebbe illuminare proprio il campo di quella integrazione indispensabile all’evoluzione di tutta l’arte e la scienza medica: Medicina e valori umani – Fondamenti per un’etica medica – Edizioni Minerva Medica.
Qui annoto qualche spunto dal libro citato che, con tanta chiarezza, potrebbe cambiare il modo comune di pensare e di agire nella relazione medico-paziente così come tra sistema sanitario e cura.

Oggi l’identità medica “viene guidata secondo il modello della produzione industriale e valutata in base a criteri meramente economici”. In questo modo “l’assistenza medica perde il suo significato originario e autentico”. Infatti, “le prestazioni mediche si riducono a modelli standardizzati di trattamento”. Norme burocratiche che inducono a un “approccio tecnocratico finalizzato a fornire un’interpretazione standard di ogni problema”. Protocolli che trattano malattie con obiettivi di efficienza, non pazienti malati con traguardi di benessere. Una ridefinizione della figura del medico che – secondo Giovanni Maio – lo trasforma in un “ingegnere per l’essere umano”.

Nel bel mezzo di protocolli, standard, schemi e efficienza, il tempo è il demonio che tutto può distruggere. Mentre, per il professor Giovanni Maio, il tempo è altra cosa “Perché in medicina, il tempo, vale a dire il tempo impiegato nel contatto, il tempo della consultazione, il tempo necessario a costruire un rapporto di fiducia, non è affatto un consumo, uno ‘spreco’, da minimizzare come nell’industria, ma è esattamente il contrario: è, cioè, l’investimento fondamentale perché una terapia abbia successo. Solo attraverso il tempo in cui si sta a contatto, il paziente può essere coinvolto nel processo terapeutico, accompagnato lungo un percorso spesso faticoso, dove ha bisogno di incoraggiamento e di colloqui stimolanti. Il tempo è un valore aggiunto, in medicina”.


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