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Lasciare è un po’ morire

Tempo di lettura: 3 minuti

Tra le tante attività della mia vita, mi sono trovato diverse volte a consigliare e sollecitare persone in ruoli di leadership (imprenditori, politici, guide di associazioni) ad accettare e governare il proprio cambiamento, quasi sempre per superare una crisi o adeguarsi a una modificazione del contesto, o per provvedere ad una ragione esistenziale del leader stesso, come, per esempio, la sopravvenuta tarda età.

Nell’aneddotica che potrei raccontare, il passaggio di mano della conduzione di un’impresa o della guida di una associazione, è sempre stata una circostanza con i colori del dramma.
Ricordo bene gli occhi dei miei interlocutori mentre li esortavo a pensare al dopo di loro.
L’espressione, come un fumetto sulla testa, evocava silenziosamente una o tutte queste dichiarazioni:
«Proprio tu mi tradisci?»;
«Non sono ancora morto!»;
«Non esiste nessuno in grado di fare quello che faccio io»;
«Oddio… così tutti mi dimenticheranno…».
La quasi totalità delle mie esperienze specifiche ha prodotto nulla di buono: quasi tutti sono rimasti al loro posto, spesso assistendo passivamente agli atti finali dell’impresa o istituzione guidata.

Ci ripensavo in questi giorni in cui osserviamo la malinconica tragedia democratica americana, volta, temo, alla rielezione di un Presidente tanto ricco quanto irresponsabile e col riportino dei capelli arancioni sulla testa. Un uomo che pochi giorni prima della pallottola che l’ha santificato, ha definito l’attuale Presidente in carica «sacco di merda» mentre in queste ore, con occhio lucido, dichiara di essere salvo grazie «alla mano di Dio». Quell’altro da parte sua ha prima dichiarato che si dimetterebbe solo se glielo chiedesse Dio (sarà lo stesso Dio di Trump?) mentre ora ha aggiornato la questione rimettendola nelle mani del suo medico.
 
In un paese guida come l’America, se è penoso che un grande partito come quello Repubblicano affidi i suoi successi ad un uomo come Trump, non consola che quello Democratico non sia stato in grado di esprimere un candidato capace di prendere il posto di un uomo degno ma manifestamente bisognoso di onorare la sua vecchiaia non priva di acciacchi limitanti.

Joe Biden ha espresso il peggio di noi occidentali tutti. Con le sue corsette rigide rappresenta il senso più maschile e illusorio di una vecchiaia giovanile e cazzuta, quando non l’esorcizzazione della morte. Insomma, se l’occidente è quella parte del mondo dove vigono i Diritti, non esiste spazio per quello alla vecchiaia.
Anche in Italia abbiamo sentito il medico personale di Berlusconi, Zangrillo, che dichiarava ai TG che l’ultimo test sulla salute del suo assistito, lo dava con una età biologica di 50 anni e una aspettativa di vita a 140 anni…
Ed è così che i cimiteri sono pieni di uomini immortali e insostituibili.

Il buon leader è (dovrebbe essere) capace di vedere ben oltre le sue sorti personali perché ha una visione prioritaria di quelle dell’impresa guidata. Il buon leader lavora fin dal primo giorno di governo alla sua successione in una logica di miglioramento continuo. Quindi, operando fecondamente perché l’erede sia, appunto, migliore, non solo più giovane.
Massimo Recalcati la chiama «l’arte di saper tramontare» quella che «dovrebbe guidare un leader degno di questo nome sin dal giorno del suo insediamento».

Il tramonto non come incidente doloroso e nefasto, ma come momento di bellezza infinita che illumina il nobile gesto di trasmettere un sapere, un potere, un ruolo, come fosse un dono migliorabile proprio perché abbiamo lavorato bene, al nostro meglio. Un dono che merita di risplendere anche nel futuro, ben oltre le sorti di una sola persona.

In un mondo ideale in cui l’Occidente si integra con l’Oriente, noi avremmo molto da imparare. Da questi due concetti in particolare, tanto cari ai samurai del Bushido giapponese e ai monaci Buddhisti tibetani: l’attaccamento e l’impermanenza.
L’attaccamento come tensione mentale e fisica che ha come conseguenza solo dolore e sofferenza.
L’impermanenza come accettazione della transitorietà dei fenomeni che permette uno sguardo sereno sul fluire delle cose e l’abbandono del «Io sono» come liberazione dai propri limiti egoici e come evoluzione spirituale.

Thích Nhất Hạnh, (1926-2022), monaco buddhista, poeta e attivista vietnamita per la pace qui direbbe:
«Com’è fresco il soffio del vento!
La pace è ogni passo.
E fa gioioso il sentiero senza fine».

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