
Trump e la faccia oscura dell’America
“Il tradimento di Capitan America” è il titolo dell’articolo di Donato Carrisi pubblicato nelle pagine della Cultura del Corriere della Sera di mercoledì scorso.
Secondo l’autore dell’articolo gli ideali di giustizia espressi dalle avventure di quel personaggio del cinema fantascientifico sono stati rinnegati dall’arrivo nella Casa Bianca di Trump e compagni. Sono d’accordo con lui, anche se Capitan America rappresenta un nazionalismo da “arrivano i nostri”.
Vorrei aggiungere che il nuovo presidente non è apparso improvvisamente dall’ignoto, ma come una pianta tossica cresciuta in bella vista in un terreno fertile insieme alle altre piante benefiche. Pertanto la “sorpresa” manifestata dall’Europa e dai vari commentatori, la trovo inutile.
L’ America ha avuto sempre due facce: quella buona, tollerante, democratica, progressista; quella cattiva, malvagia, brutale, cinica.
E questo è avvenuto sin dalle origini della nazione, da quando i Padri pellegrini, perseguitati in Inghilterra, nel 1620 sbarcarono sulla costa del Massachussets. All’inizio furono aiutati dai nativi con i quali andarono d’accordo, fino a quando una volta stabilitisi, li cacciarono a fucilate per prendersi le loro terre.
Fu una guerra continua durata sino ai primi del ‘900, quando la popolazione indigena venne quasi estinta in tutto il Paese.
Ho già scritto spesso del lato oscuro degli Stati Uniti, dalle intrusioni nell’America Latina definita dal presidente Monroe il “giardino di casa”, sino a quanto è accaduto nei nostri giorni.
Preferisco l’altra America, quella di F.D. Roosevelt e dell’intervento per liberare l’Europa, quella degli aiuti al nostro continente distrutto. E quella degli anni dopo, non per la politica, ma per aver portato alla mia generazione un vento di benessere e modernità nella Cultura, nella musica e nel modo di pensare. A tal punto da farci dimenticare le distruzioni dei bombardamenti delle nostre città anche perché furono seguiti subito dopo dall’arrivo dei liberatori americani.
Ho sentito per la prima volta la parola americano quando avevo appena tre anni e mezzo e dal terrazzo di casa vidi il bombardamento notturno di Trani, a una decina di chilometri di distanza, che “era un fuoco d’artificio” come disse mia madre. Chiesi a mio fratello dodicenne che amava l’aviazione, se il forte ronzio che proveniva dal cielo di Trani fosse quello delle mosche e delle api: «Macché – mi rispose – sono le fortezze volanti americane B17».
Un mese dopo in treno con la mamma, vidi la guerra più da vicino: la stazione di Foggia distrutta, vagoni sventrati, locomotive capovolte. “Sono stati gli americani”, commentò un signore seduto nel nostro scompartimento.
Poi con la liberazione della cittadina in cui eravamo sfollati, vidi gli esseri umani americani. Percorrevano con le jeep, gli autocarri e i carri armati il corso principale con tanti sorrisi e lanci di cioccolate e caramelle.
Li considerai degli angeli, dopo aver visto per mesi i “diavoli”, cioè tedeschi e i repubblichini con i volti severi e le maniere brutali.
Vidi un altro angelo nell’ufficiale americano che aveva fatto amicizia con i miei genitori: portava spesso in giro sulla jeep me e mio fratello. Poi rientrato in patria ci mandò ogni mese sino al ’49 dei pacchi pieni di scatole di carne, zucchero, marmellata, pineapples whit rice (un dolce con ananas e riso). C’erano anche delle automobiline per me.
La mia vera scoperta dell’America avvenne quando a 15 anni iniziai a conoscerne la letteratura. Incominciai con la lettura di Americana, l’antologia di Elio Vittorini che raccoglie la narrativa del Paese dalle origini con 50 racconti a partire da Washington Irving (prima metà dell‘800), per arrivare a John Fante (seconda metà del‘900). Compaiono tra i tanti E. Allan Poe, Melville e altri più moderni come William Faulkner, Ernest Hemingway, John Steinbeck, tanto per citarne alcuni.
Il libro uscito per la prima volta nel ’39, ebbe una larga diffusione tra quegli italiani che volevano fuggire dalla cultura tradizionale imposta dal fascismo. Difatti qualche mese più tardi il libro subì la censura del regime.
Contemporaneamente a questa esperienza arrivarono dall’ America dischi in vinile a 45 e 33 giri, assieme alla musica contemporanea, cioè il rock and roll e il blues.
Fu una rivoluzione per noi giovani introdotta anche dal film “Senza tregua il rock and roll”, che ci fece conoscere Elvis Presley, Harry Belafonte, Otis Reding, Fats Domino, Bill Haley, Jerry Lee Lewis e tanti altri.
Fu una rivoluzione che allontanò completamente da noi la noiosa musica leggera italiana di Nilla Pizzi, Claudio Villa e gli altri che cantavano di amore e cuore.
Il consumismo dei giovani ebbe inizio da quel periodo con la vendita dei dischi e dei giradischi più moderni a prezzi più bassi. Con l’arrivo del boom economico arrivarono anche le paghette elargite con generosità dai nostri padri.
Conoscemmo l’America grazie alla sua musica e conoscemmo anche la segregazione razziale di quella nazione democratica seguendo la storia dei blues e dei loro artefici, i negri di allora, oggi chiamati ipocritamente afroamericani.
Grazie alla letteratura, al cinema, ai documentari, conoscemmo altri aspetti del Paese come l’esistenza del Ku Klux Klan con gli incappucciati che davano la caccia al nigger, mentre la polizia stava a guardare.
Trump è stato eletto grazie anche ai figli e nipoti dei K.K.K. i quali non portano più il cappuccio, ma la testa è rimasta uguale. “L’ America è tornata”, come ha proclamato il nuovo presidente.