
Abbandonare, non essere complici
Tornerai a trovarci? È la frase con cui una madre dal pianerottolo segue il figlio sulle scale e ha percepito che il suo potrebbe essere un addio e vorrebbe mutarlo in un arrivederci. Con questa immagine comincia L’anniversario il bel romanzo di Andrea Bajani dedicato alle relazioni nella famiglia.
L’anniversario celebra i 10 anni da quando il protagonista ha lasciato la casa dei genitori per non tornare più, i 10 anni più felici della sua vita. Abbandonare i genitori è un vero tabù. Il figlio lo ha fatto e addirittura ha cambiato continente, numero di telefono per essere irrintracciabile.
Nonostante gli anni trascorsi, il figlio sente ancora aperte le ferite di quella convivenza con cui ora ha deciso di fare i conti. Per curarle ripensa alla vita marginale della madre e ne fa il centro di un romanzo («Scorporare mia madre da mio padre significa, letteralmente, sottrarla all’invasione in cui la figura di mio padre si è imposta sistematicamente al nostro immaginario»). La donna ci viene presentata attraverso dettagli: una gamba colpita dalla poliomielite, un profumo economico, gesti ripetuti come preparare la tavola, lavare i piatti, ecc. o gesti inconsueti come portare il figlio, l’io narrante del romanzo, al pronto soccorso in bicicletta.
Dai dettagli la madre, sempre in secondo piano, appare una donna paradossalmente determinata a sembrare debole. Ha seguito il marito lasciando Roma per un paesino del Piemonte, e ha vissuto i suoi anni sola, separata dai parenti, per molti anni priva di amicizie, dedita alla famiglia. Dipendente economicamente dal coniuge, che la costringeva a rendicontare ogni minima spesa, non può neppure usare il telefono normalmente ma deve limitarsi agli squilli per chiedere di essere richiamata.
Solo una volta, ricorda il figlio, nella vita della donna c’è stata una breve parentesi di vita fuori casa, era stata cassiera part-time in supermercatino, in quel periodo pareva libera e addirittura sorrideva. Tutto era finito presto, però, ed era stata di nuovo fagocitata dalla routine domestica. Non aveva una vita, la sera si sedeva e stava ad ascoltare tutto quello che era successo agli altri e faceva parole crociate.
Era allo stesso tempo inesistente e indispensabile alla famiglia. Per il padre all’inizio, aveva addirittura rinunciato all’università, era iscritta a Lettere, mentre lui aveva solo il diploma di terza media perché aveva abbandonato il liceo.
Amiche non ne aveva quasi, due mamme di compagni di scuola, subito perse e un’amica separata, quasi femminista, con cui aveva azzardato un gesto di ribellione subito soffocato che le aveva separate.
La madre era così presa dal suo compito o manipolata dal coniuge che non le importava quasi che questo avesse un’amante, con l’amica aveva visto l’automobile del marito parcheggiata sotto la casa della donna, aveva persino lasciato un biglietto sotto il tergicristallo. Ma, come detto, la sua ribellione sfumò subito e le costò la frequentazione dell’amica e la capitolazione, in fondo il marito a lei non faceva mancare niente e di sicuro non avrebbe abbandonato il tetto coniugale.
Scrive il figlio che il marito la annientava per potersi sentire qualcosa e d’altra parte «lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa». Come spiegare altrimenti della scena in cui, mentre la famiglia sta per partire per il mare, la madre si lava i denti con l’acqua dello sciacquone perché il padre ha chiuso il rubinetto centrale e lei non vuole dare fastidio.
E il padre? Come detto, era un uomo manipolatore e violento (aveva persino preso a morsi un tavolo), ma sapeva ballare, era per lui che avevano lasciato Roma e si erano trasferiti in un paese sperduto del Piemonte, perché aveva commesso qualcosa. Sempre lui, con un gesto violento, un giorno ferisce la madre alla testa e dice al figlio, testimone della scena, «Promettimi che ti laurei». In seguito, l’uomo confessa che in quel momento pensava di suicidarsi.
«Mio padre, in sintesi, aveva bisogno di spaventare per sentirsi amato, anche se sapeva. Per istinto che nessuno spavento sarebbe stato sufficiente a farsi amare quanto lui voleva, e che anzi avrebbe provocato solo pura, insincerità e in definitiva disamore».
«Quanto a mia madre, il non avere paura di lui le garantiva una zona franca di infelicità imperturbabile. Per questo, come ho già detto, mia madre era più forte di mio padre, e in fondo vinse la partita su di lui. E perse quella con la vita».
Padre e madre non hanno un nome in questo intenso romanzo come se darglielo togliesse loro intensità. Così come non lo ha la famiglia allargata, i nonni per l’io narrante sono: i genitori di mia madre o di mio padre. La scrittura è controllata, cristallina funzionale allo studio delle dinamiche. Il figlio agisce come un entomologo, guarda, osserva senza giudicare.
Scriverne, però, è un modo di tornare alle scale dove ha lasciato la madre.
